Capitolo 4

 

Barbara e Luca

 

 

 

 

Pochi minuti dopo Maria  scorse Luca in una radura che costeggiava la carrabile. Lo chiamò  ad alta  voce.

“Zia Maria!” gridò  felice Luca correndole incontro.

I due s’abbracciarono forte poi la ragazza accostò le labbra all’orecchio del nipote  e,  indicando con la coda dell’occhio la ragazzina rimasta davanti alla vasca di Fontecanala  ad osservare la scena , sussurrò:

“Carina. .Tientela buona. E’ un buon partito quella.”

Sorrise,  poi sciolse l’abbraccio , il cuore le batteva ma tacque, salutò i due e riprese il cammino per raggiungere la fermata della corriera poco distante.

Tra zia e nipote c’erano pochi anni di differenza e quella naturale simpatia che spesso accompagna i coetanei. Si volevano un gran bene, specialmente lui le era morbosamente attaccato.

Linda , rimasta sola ,  aveva avuto il compito più arduo, quello di crescerlo, diventando così la figura noiosa che deve indicarti la strada da percorrere, Maria invece era stata sua complice nella spensieratezza dell’adolescenza. .

Il ragazzo sognava ad occhi aperti ed era felice di quella sua vita serena, non si preoccupava dei guai che gli danzavano pericolosamente intorno come si sentisse protetto dall’incoscienza della giovinezza.

Maria aveva progettato di portarlo con sé a Roma ,ma lui non ne voleva sapere,era affezionato al suo mondo , non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare quei monti arsi dal sole durante il giorno che durante la notte incorniciavano un tessuto di stelle lucenti.

 

 

 

Amava i cortili ,le povere case , persino i sassi di quel paese dove era cresciuto libero, ne apprezzava i colori  centellinandone inebriato i sapori e gli odori tanto familiari.

Intanto il cielo s’era imbronciato , si sdraiò di nuovo sull’ erba del prato accanto alla ragazza che , adagiato il capo tra le  braccia,  faceva rotolare tra le  dita uno stelo d’erba assaporandone di tanto in tanto  il gusto amarognolo. .

Nipote della Signora, Barbara, questo il suo nome , aveva quindici anni ed era capace d’amare come solo a quell’età è possibile. Era una graziosa ragazzina , in lei   s’indovinavano già i lineamenti e le fattezze della donna , non si curava delle apparenze né della miseria di Luca , ne era innamorata tutto il resto non contava.

Nella penombra del sottobosco gli alberi piegavano verso il suolo curvati dal tempo  trascorso sotto la pioggia in autunno e la neve durante gli  interminabili e gelidi inverni. Alcuni tronchi marcivano ormai nell’erba devastati dai funghi che a grappoli ne ricoprivano completamente le radici .

Poco più in là l’acqua chiara e fresca di una sorgente sgorgava direttamente dalla roccia coperta di una soffice coltre di muschio, dai rami spogli degli arbusti emanava un penetrante profumo di resina. Qua e là gruppi di giovani alberi dalle fronde  sempre verdi davano ombra a piante spinose che modellavano grovigli inestricabili tra i quali pochi timidi fiori sbocciavano esitanti. Nel frattempo le alte chiome mosse dal vento sussurravano lamenti mentre le  nuvole sempre più minacciose si addensavano sui due che non sembravano accorgesi di nulla.

Tra i riflessi bruni il sole, spaventato, s’era nascosto , Barbara pose la mano in quella di Luca, i suoi occhi puliti sorpresero lo sguardo del ragazzo che tentava d’intrufolarsi nella piega della sua camicetta maliziosamente abbottonata per sbirciare lo spicchio di seno che affiorava curioso ed eccitante. Il ragazzo colse quel dolce sorriso di monito ed arrossì abbassando lo sguardo, lei gli sollevò delicatamente il  mento e socchiusi gli occhi lo baciò teneramente.

Barbara era una ragazzina solare e molto bella, i capelli morbidi color castano sciolti sulle spalle decantavano i grandi occhi scuri .

La bocca , dolcissima quando rimaneva socchiusa, le conferiva  un’aria simpaticissima quando sorrideva con quei dentoni e quelle graziose gote a ciliegia. Malgrado l’aspetto da eterna ragazzina sotto quelle semplici vesti da contadina era ormai una donna.

Luca di contro, nonostante avesse già compiuto diciannove anni sembrava un  ragazzino. Appariva trasandato , il volto magro e scavato, portava i capelli , neri come la pece,  lunghi e arruffati mentre un paio di occhiali rotondi con lenti incredibilmente spesse gli rimpicciolivano gli occhi . Una barbetta rada,  fatta crescere senza troppa cura sembrava  necessaria per conferirgli un aspetto da adulto. Snello e robusto indossava sempre un grosso giaccone per apparire più pienotto, inevitabilmente le mani sparivano sotto le maniche e l’orlo dei larghi pantaloni di fustagno finiva sotto un paio di grossi scarponi scuciti da un lato con i quali macinava ogni giorno decine di chilometri.

Non sopportava di essere diverso neanche la domenica , Linda aveva tentato  di renderlo presentabile,  almeno nel giorno del Signore, ma ogni suo sforzo era stato vano. Anche lei , alla fine,  si era dovuta  rassegnare.

I due ragazzi si erano conosciuti solo qualche mese prima quando la famiglia di Barbara si era trasferita in Paese per sfuggire ai bombardamenti delle grandi città , tragico flagello di quei drammatici ultimi mesi di guerra.In breve quella simpatia , quell’amicizia nata per caso s’era trasformata in un sentimento che i più chiamano amore, un’emozione  che procura tanta gioia da farti star male, un malanno che , per fortuna, dura il breve spazio di qualche stagione.

Il temporale squarciò improvvisamente il cielo , il tuono rimbalzò di monte in monte con un rombo minaccioso e la pioggia , dapprima svogliata, prese a percuotere con insolita violenza l’intera vallata. Le montagne scomparvero , il cielo e la pianura diventarono un tutto indistinto.

I due corsero via tra i rovi martellati dall’ acquazzone mentre  le pietre franavano sotto i loro piedi. Luca tirò su fino alle ginocchia i calzoni mentre Barbara sollevò la lunga gonna che le ostacolava la corsa. L’acqua aveva riempito i fossi e , dove il terreno era in discesa,  trasformato i sentieri in torrenti. 

Trovarono infine riparo sotto un grande albero e lì rimasero a lungo abbracciati, stretti stretti senza avere il coraggio di scambiarsi una sola parola che potesse spezzare l’incanto turbando così quel momento che pareva essersi creato apposta per loro.

Intanto  il diluvio scagliava al suolo i suoi dardi impazziti. Fitta e sottile la pioggia formava sotto i loro piedi pozze d’acqua che riflettevano il cielo. Il sole si era fatto da parte rintanato dietro le nuvole scure , solo di tanto in tanto la penombra era interrotta dall’improvviso sfolgorio dei lampi. La luce rapida e saettante annunciava il fragore del tuono che riecheggiava tra i dirupi mentre la pioggia , instancabile,  precipitando a valle scavava profondi solchi nel terreno fangoso dei campi. Gli alberi secolari piegavano la schiena sotto il nubifragio,  ma tenevano duro cercando di resistere alle gagliarde folate di vento gelido che strappavano le foglie ai rami più esposti.

Finalmente la furia della natura si placò e il violento temporale cessò così come era cominciato, il sole si fece coraggio e riaffiorò tra gli strappi delle nuvole trascinate via dal vento.

 Usciti dal precario riparo, i due s’incamminarono verso casa, nell’ aria l’odore dell’erba bagnata. Inzuppati e tremanti percorsero il sentiero appena abbozzato che  inerpicandosi dal bivio saliva fino in paese costeggiando a destra il terreno del prete e a sinistra quello di Nannina.

Giunsero infine ad un crocevia appena percettibile che a sinistra portava in Paese  e a destra saliva verso il vecchio cimitero. Luca senza dire una parola voltò verso destra  seguito dalla sua compagna  e , avvicinatosi  al cancello di quel luogo silenzioso , sollevò il pesante chiavistello arrugginito dal tempo e dalla pioggia.

Nel desolato camposanto lo scenario, reso ancor più lugubre dall’oscurità e dal mormorio del temporale che s’allontanava, era spettrale. Eleganti lapidi in marmo e rozze croci di legno si facevano compagnia, nei vasi colmi d’ acqua i fiori intrisi di pioggia avevano reclinato lo stelo e perso i petali che disseminati sul terreno limaccioso rendevano ancor più triste l’atmosfera.

Il ragazzo s’accostò lentamente ad una povera tomba sulla quale erano cresciute zolle d’erba e semplici fiori di campo, sulla grezza croce di legno era inciso un nome in parte cancellato dalla rovina del trascorrere inesorabile del tempo. S’inginocchiò , restò a lungo a pregare, infine si rialzò e, sempre seguito da Barbara che aveva osservato silenziosa la scena, varcò di nuovo il cancello . Si lasciarono alle spalle il muro di cinta bianco e la chiesetta attigua, dedicata alla Madonna della Neve, e si avviarono  verso le luci ormai prossime del paese.

La sera  disperdeva nel cielo ormai sereno, macchiato qua e là da qualche nuvola biancastra che sfumava i colori nel rosso tinteggiato dal giorno morente, l’ultimo canto degli uccelli. Il sole stremato andava a dormire sotto le coltri della notte, Luca prese per mano la sua ragazza ed insieme percorsero gli ultimi metri che li dividevano dal villaggio da cui proveniva smorzato il brusio dei contadini e dei pastori che parlottavano al ritorno dai campi.

Dopo il sepolcreto la strada bianca tracciata sotto la montagna curvava a gomito rasentando un muricciolo di cemento, indispensabile ristoro alle fatiche della vecchia Evelina che , reggendo in precario equilibrio sulla testa una conca di rame colma d’acqua ,  tirava il fiato prima di riprendere il cammino.

Superata la curva la via riprendeva a salire, i due , prima di percorrere gli ultimi metri,  passarono accanto alla cappelletta di Sant’Antonio incastonata nella roccia e si fecero il segno della croce.  L’ultimo tratto lambiva a sinistra un altro muretto di pietra  molto più lungo sul quale frotte di ragazzini festanti , fuggiti dai cortili dopo la pioggia,  salivano e scendevano di continuo  inutilmente richiamati alla prudenza da mamme preoccupate e stanche.

Finalmente s’incontrava il primo edificio del paese addossato al bordo della montagna, ancora un’ ultima erta attraverso il viottolo delineato tra due alti fabbricati in pietra e si sbucava nella via principale del paese circondata dalle povere costruzioni di sassi e cemento dei primi abitanti del paesello.  La via attraversava l’intero paese passando rasente la bottega del burbero Adolfo a sinistra e l’ufficio postale annidato sotto al monte a destra, poi sfociava nella piazza principale sovrastata dallo splendido palazzo dei Bellizi , ricchi commercianti del luogo.

Proseguendo scendeva  verso Pagliaterra , la periferia del paese , disperdendosi in rivoli di anditi nascosti, vicoli e stradine dove si affacciavano i cortili e le case, fatte in parte di mattoni e in parte di quegli stessi sassi che erano serviti per acciottolare la strada. Lasciandosi invece la bottega alle spalle si scendeva lungo una scivolosa gradinata di pietre lisce e arrotondate che , costeggiando la vecchia scuola elementare ed un passaggio ad archetto dove si rifugiavano i bambini durante il temporale , scendeva fino alla piazzetta della Chiesa dove , quando le nuvole basse non coprivano le montagne , si poteva osservare la cima brulla della Cona e l’ intera valle di Nerfa punzecchiata dalle casette dei paesi vicini . Se il cielo poi era particolarmente limpido lo sguardo poteva spingersi fino alla corona verde dei  monti di Pianezze.

L’alba del giorno concesse al paese un tiepido sole che scintillando sulle pareti di roccia riscaldò le vaste distese dei campi e le cime dei monti ,la caligine  della notte diradò rapidamente liberando i fiori e l’erba dalla rugiada del primo mattino.

Nel bosco poco lontano un sole ancora incerto riusciva appena a  filtrare tra le fronde degli alberi che  s’arrampicavano verso il cielo sereno. Velata dai grovigli intrecciati dei cespugli, in fondo alla strada,  s’intravedeva un’antica cappella dove si diceva fosse apparsa la Vergine. Questo almeno era quanto raccontavano le nonne ai nipoti riuniti  al caldo dei camini nelle lunghe sere d’inverno. Poco più in là il terreno si faceva ghiaioso e accanto a cumuli di detriti sabbiosi scorreva pigramente un fiumiciattolo.

La purezza dell’acqua brillava trafitta dai raggi del sole ormai alto mentre  lunghe alghe verdi si muovevano sul fondo ghiaioso. Sul greto del torrente, seduto su una pietra, Gabriele fissava silenzioso la scena sulla quale apparve di lì a poco il vecchio Rizzieri che si recava come ogni giorno al fiume a dissetare i suoi cavalli.

 In groppa alla puledra di testa una ragazzina magra coperta di stracci sonnecchiava aggrappata alla criniera, la povera bestia agitava e scuoteva la coda per scacciare le mosche che le si posavano fastidiose sul dorso ben attenta a non destare con movimenti troppo bruschi la bambina.

Il lento scalpitio degli zoccoli che , scivolando sui ciottoli del fondo , spaventava  pesci e girini facendoli dileguare e lo sciabordare lieve dell’acqua sembravano gli unici suoni atti a turbare il silenzio. Ad interrompere però , di tanto in tanto,  quel rumore di sottofondo provvedevano i gorgheggi degli uccelli che volavano di ramo in ramo sugli alberi che costeggiavano il torrente e trafiggevano il terreno sabbioso con le loro lunghe radici sommerse  dalle acque spumeggianti.

“Bongiurne!” Esordì Rizzieri.

“Buongiorno!” Rispose indolente Gabriele senza staccare lo sguardo dalla riva opposta dove gracidava zampettando allegramente una rana.

“Che sta a fa’ locoaballo in mezzo a li frusci e a quie ‘nzuglio?” Domandò l’uomo vedendolo così pensieroso.

“Niente compare Rizzieri…proprio niente .”

Rimase ancora un momento ad osservare la rana che con un ultimo balzo scomparve in un fosso , poi s’alzò e a testa bassa s’allontanò.

“Ne quaio ròsse quia vagliòna per quie scattuse .  ”sospirò Rizzieri rivolto alla bimbetta accarezzando il muso umido della cavalla che teneva per le redini.

Lo sguardo del vecchio si rivolse ancora verso Gabriele ma il sole ormai alto lo accecò , si voltò e vide allora la piccola che stropicciandosi svogliatamente gli occhietti faceva segno di voler smontare. Lasciò le briglie , distese le braccia e con quelle sue grandi mani ruvide prese per le ascelle la nipotina  posandola delicatamente a terra. Pescata una mela dalla bisaccia,  gliela porse, poi tornò ad avvolgere la coperta spiegata dai piedi della bambina sull’arcione della sella.  

Su quel volto scurito dal sole , tipico di chi vive all’aria aperta, segnato dalle fatiche e dalle privazioni,apparve un largo sorriso. La bimba lo fissò divertita , esaminò la buffa mascellona e i pochi denti rimasti sotto a quei folti baffoni , sorrise, poi,  addentò a fatica quel frutto troppo grosso per il suo pugno. La pelle le profumava di  sole e di timo.

Ciondolando ancora per il sonno s’avvicinò al greto del torrente e si mise ad osservare compiaciuta le onde saltellargli intorno come tanti cuccioli. Rimproverata dal nonno,  che mentre raccoglieva la legna non la perdeva d’occhio , la piccola  cominciò a schiaffeggiare l’acqua con il palmo della manina ridendo forte a vederla schizzare in aria frantumata in mille perline. Raccolti poi dei ciottoli prese a scagliarli nel fiume crivellato di lumini d’oro per il gusto di vedere i cerchi dell’acqua allargarsi nel chiarore del sole e tremolare chiari . Nei suoi occhi il candore dell’infanzia.

 Saltellava come la capra intorno alla fratta vestita con una corta sottanina che lasciava scoperta la pancia. Ridendo spensierata trotterellava scalza verso il greto limaccioso poi , correndo a ritroso,  tornava di corsa all’asciutto lanciando nell’aria urla acuminate che stordivano la campagna.

Il vecchio non era il suo vero nonno, ma la mamma era volata in cielo  nel darla alla luce ed il papà era scomparso ingoiato dalla miseria,il vecchio l’aveva così presa con sé  . Aveva solo lui al mondo e per lei era sempre stato nonno Rizzieri. .

La mocciosa stanca del gioco si mise a sedere sulla riva ghiaiosa ad osservare i gesti familiari del vecchio che accatastava sui fianchi  dei poveri animali  pesanti fasci di legna secca che sarebbe servita di lì a poco per riscaldarsi dal freddo pungente dell’inverno alle porte.

Terminato il carico tornarono in paese, il sole delle prime ore pomeridiane scaldava finalmente anche le case più in ombra addossate alla montagna. .

Nella sua catapecchia Gabriele macchinava insoliti progetti misurando a grandi passi la cucina.

“Stanotte…devo farlo…sì questa notte….”

Pensieri confusi lo tormentavano.

“Mangia checcosa .”

Sospirò mamma Lucia angustiata porgendogli un piatto di cucinati.

“Non si toccato niente.”

Poi parve quasi alzare la voce e continuò.

“ Si diventate nu bragalone. Ma sci ,  nu cacaccione pe ‘na vagliòna! ‘Na mammòccia che non te vole bene.”

“Non voglio mangiare! Lasciami in pace!”

Urlò fuori di sé il giovane,  poi uscì dalla cucina sbattendo con violenza la porta.

La povera donna dapprima tenne le mani premute contro le orecchie per cercare di non sentire le imprecazioni del figlio che si allontanava, poi sistemò lo scialle sulle spalle e chinò il capo avvilita. Avvertì un nodo serrarle la gola come volesse soffocarla, il peso della vecchiaia e della solitudine si fece insopportabile , si sollevò a fatica dalla sedia , sparecchiò adagio il rozzo tavolaccio dove giacevano un pezzo di pane  e una caraffa di vino rosso, poi entrò nella sua stanza per non uscirne più