Capitolo 2

 

Maria e Gabriele

 

 

 

...dalle quattro casupole che circondavano la vecchia chiesa il sole spiava mezzo addormentato la piazza, s’intrufolava curioso nel misero rosone infine si posava esausto sull’altare ritagliandone i contorni.

Ormai la sera s’avvicinava e tutte le donne del paese tornavano frettolosamente alle loro case per metter su la cena avviata prima del vespro.

All’interno della chiesetta restava solo una vecchia dalle occhiaie peste che, sfinita, fissava l’immagine della Vergine in un logoro dipinto che pendeva al centro dell’altare. Stringeva febbrilmente tra le mani scarne e tremanti un antico rosario e un indefinito bisbiglio proveniva dalle sue labbra appena socchiuse.

Giunta all’ultima perlina si alzò lentamente ,ripose con cura il rosario nel tascone della veste, sistemò il velo scuro che le copriva i capelli bianchi quindi s’inginocchiò appoggiando la mano sul banco, fece il segno di croce e finalmente si trascinò a fatica  a piccoli passi verso l’uscita infagottata in uno scialle nero e in un vestito scuro di lanetta lungo fino ai piedi.

Il parroco osservò il rito come ogni sera finché le grandi porte laterali non si richiusero  dietro di lei, poi, salutato a sua volta il Signore, uscì serrando il pesante portone d’ingresso.

Il sole era ormai svanito dietro i monti della valle di Nerfa e gli ultimi riflessi rossastri illuminavano a stento  il cammino del curato che, passando accanto alla  Costarella ,  s’avviava per rifornirsi di vino e tabacco con passo sicuro verso la  bottega di Adolfo , meta d’obbligo ogni sera prima di tornare a casa a riposare.

Un rado pergolato tentava d’ombreggiare i rozzi tavoli ai quali erano seduti quei pochi vecchi che preferivano un buon bicchiere di vino e un mazzo di carte alla parola del Signore.

Seduto al tavolino più appartato c’era anche Gabriele, un giovane che il buon senso aveva spinto a nascondersi nei fitti boschi del monte Gerifalco quando il cavalier Benito Mussolini aveva chiamato al macello i giovani d’Italia.

Tutta la gioventù del paesello era partita e solo i vecchi e le donne, stufe di restar sole nei letti ,erano rimasti a popolare quello sputo di villaggio che tutti silenziosamente odiavano ma continuavano a rispettare.

Con gli occhi persi nel vuoto e i pugni serrati sul tavolo il ragazzo lottava con se stesso e con quei vecchi ruderi che parevano rinfacciargli quella che agli occhi dei più  era apparsa semplice viltà.

Era ormai abituato a sentirsi addosso quegli sguardi , faticava comunque a sostenerli, sapeva di non aver mai avuto un coraggio da leone,restava tuttavia convinto dell’ inopportunità di farsi ammazzare per difendere le ricchezze dei signori .

Ma allora perché continuava a pensarci? Perché rovinarsi il fegato per quelle frasi non dette , quelle occhiate cariche d’astio  venate forse da un pizzico d’invidia?

Il sacerdote lo vide, s’ avvicinò, gli pose una mano sulla spalla e, chinato il capo , accostò la bocca all’orecchio del giovane per bisbigliare poche parole.

Questi sollevò la testa  e sembrò destarsi da un sogno , poi , superata quella ormai naturale indolenza balzò in piedi ed esclamò:

”Dov’è?Dov’è ora?”

Don Urbano gli fece segno di seguirlo, Gabriele afferrò la giacca dalla sediaccia di legno dov’era appoggiata e , dopo averla fatta roteare sulla testa per sistemarla sulla spalla,  s’incamminò dietro il religioso.

Scesero per il ripido acciottolato a gradoni che portava alla piazza, percorsero un breve sentiero transitando dietro al Moccioluso, il palazzo più imponente del paese ,  poi , tagliando per una scorciatoia, si diressero verso Fontevecchia.

 

Gabriele durante il cammino, un vertiginoso susseguirsi di ripide scalinate e vicoli ombrosi,  cercò di resistere alla tentazione di programmare quanto le avrebbe detto ma non ci riuscì.

Pochi minuti dopo terminarono la loro marcia davanti ad un vialetto prospiciente una casa in pietra e cemento  sprofondata tra un mucchio di erbacce. Il profumo di quei pochi fiori che avevano resistito all’inclemenza del tempo  non potevano nascondere il  forte fetore di bestie e concime che emanava dalla terra tanto forte da far resuscitare un morto,  sepolto, per sua sventura, là sotto.

Il giovane sbatté le palpebre per difendersi dalla luce del sole,  osservò con attenzione le finestre aperte,  quindi si abbandonò alle proprie pulsioni dirigendosi verso un portoncino dalle assi rinforzate .  Impugnato il pesante batocchio a forma di leone , bussò ripetutamente con forza scalfendo ulteriormente quel legno gremito di bulloni arrugginiti.

“Maria!” Urlò fuori di sé “so che sei tornata! Fatti vedere per Dio!Esci fuori!”

Don Urbano provò a farlo ragionare invitandolo a calmarsi ma non ottenne alcun risultato , a quel punto , per nulla intimorito,  fece capolino da dietro una finestrella,  il volto serio di una bella ragazza mora . Stringeva in mano una lampada a petrolio che illuminandole il profilo lasciava immaginare  un carattere fiero e  ribelle.

“Che diavolo vuoi?” ribatté con quel tono seccato e indisponente che solo le donne sanno avere  “è questa l’ora di venire a importunare la gente? Ne parliamo domattina!”

“Sì domattina....” balbettò Gabriele “se ci sarai ancora domattina.”

“Domani...ne parleremo domani di buon ora! ” ripeté la ragazza “ E adesso vattene...sono molto stanca!”Quindi riaccostò la finestrella e sparì all’interno della stanza.

Il giovane seguì ancora per qualche istante la fioca luce della lanterna che trapelando dalle imposte socchiuse lasciava la camera e percorreva il corridoio, poi , una volta svanita , si voltò e a testa bassa se ne tornò verso casa dopo aver cercato invano con lo sguardo il sacerdote che, resosi conto d’essere di troppo  , s’era incamminato da un pezzo sulla via del ritorno.

Tirava calci ad ogni sasso che gli capitava imprudentemente tra i piedi mentre saliva su per la via delle Scalette,imprecando di tanto in tanto quando ne trovava qualcuno troppo duro per la punta delle sue scarpe già scorticata o quando un nugolo di mosche fastidiose ,  disturbate dai passi svelti e nervosi abbandonava il banchetto di letame che lastricava il sentiero e  s’alzava in volo ronzando sotto il naso dell’intruso. 

La Luna era già alta nel cielo e illuminava il contorno dei rilievi che abbracciavano il paese dando corpo all’ombra della grande chiesa del S.S. Salvatore, sovrastata da quella del campanile che sfumava nell’omonima piazza.  I suoi raggi rincorrevano le pietre lucide del selciato che s’arrampicavano verso l’archetto ormai scuro e le scale della vecchia scuola dove, accovacciato sotto la grondaia , un passerotto sorpreso dall’oscurità  cercava smarrito il suo nido.

Passò accanto alla bottega , la sua ombra lunga e sottile si proiettava in avanti ora schiacciata al suolo, ora distesa lungo il selciato , ora arrampicata sulle pareti esterne delle case. Intravide Don Urbano appisolato accanto ad un fiasco di vino e un pezzo di pane raffermo dove banchettavano le ultime ore le mosche di quel giorno che finiva stanco e inutile come tutti quelli che l’avevano preceduto. Non si fermò, proseguì il suo cammino percorrendo la via principale  che , stretta tra le alte case addormentate, passava accanto ad una casupola di pietre bianche levigate affacciata alla valle. 

Si fermò davanti ad un cancelletto di legno, lo aprì silenziosamente con la semplice pressione di due dita e ed entrò in quello che un giorno doveva essere un fertile orticello ridotto ormai ad un malinconico pezzo di terra arida dimenticata nel nulla.

Al piano inferiore della casaccia che spuntava tra le ortiche,la luce di una candela traspariva fioca da una vecchia finestra tarlata, il giovane armeggiò con una grossa chiave che non voleva girare e, sbuffò.          Alla fine ci riuscì ,  tentò di schiudere l’uscio senza far rumore,ma la porta , malamente fermata sui cardini arrugginiti,continuò a scricchiolare indisponente ad ogni manovra per quanto accorta.  Spazientito finì di spalancarla con una pedata, la pesante chiave scivolò sull’impiantito con un gran baccano facendo imprecare ancora una volta il giovane che, esausto, la raccolse e una volta dentro assicurò con rabbia  il chiavistello. 

Dalla stanzetta illuminata giunse allora flebile una voce , fiacca per gli anni e per gli acciacchi :

“Gabriele...”sospirò “ sei...sei tu?”

“Sì mamma sono io. Dormi. Adesso vado a dormire!”

“No...aspetta “ replicò a fatica la donna “vieni qui  da me...”

Gabriele alzò gli occhi al cielo e con un sospiro varcò quella soglia.

La finestra era appena socchiusa e dal vetro opaco filtrava un raggio di luna che,  intrufolandosi curioso dalle persiane, andava a dipingere ombre bizzarre sulla parete della stanza lambendo un crocifisso appeso sopra al comodino dove era sistemato  un santino della Vergine macero e sbiadito. La luce che appariva tanto tenue brillava improvvisamente incontrando la  porcellana di un catino bianco dai bordi azzurri  , e , solo dopo aver rincorso le sottili gambe di bambù del lavamano dove era appoggiato , moriva sul pavimento che scricchiolava sinistro e dispettoso ad ogni passo del giovane .

Gabriele , esausto,  s’accostò finalmente al letto.

Mamma Lucia gli fece cenno di sedersi accanto a lei distendendo la mano rugosa e scarna, poi scotendola lievemente sul letto: ”Ascidite ecco . ” sussurrò con un filo di voce “ dèssida...non te preoccupa’, Sand’Andonie c’aiuterà, non ce pò abbandona’.”

“Certo mamma” sospirò il figlio “ non durerà in eterno questa guerra e allora anche questa miseria finirà. Sì mamma, ma ora non ci pensare...riposa.”

Le strinse la mano gelida, poi, quando la sentì inerte , l’infilò teneramente sotto le coperte, l’osservò ancora un momento quindi s’alzò badando a non far rumore,soffiò sulla candela per spegnerla e finalmente uscì da quella stanza dove il tempo pareva fermarsi.

Nel corridoio c’era un altarino dedicato a S. Antonio, attaccato al muro un corno contro il malocchio legato con un fiocchetto rosso.

Acceso il lume salì le ripide scale che portavano al piano superiore,entrò nella sua stanza e senza neppure spogliarsi si gettò esausto sul letto.

Rimase a lungo con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto osservando le croste sull’intonaco per trovare le somiglianze, cercava una via d’uscita appeso a chissà quali pensieri, poi finalmente le palpebre si fecero pesanti e riuscì ad addormentarsi.

Il giorno dopo un timido sole s’affacciò tentennante da un banco di nubi grigie, solo di tanto in tanto dava corpo alle ombre incerte dei primi pastori che guidavano le bestie sul monte che troneggiava sul paesino. Come una minacciosa presenza la pietra incatenata sembrava voler piombare sulle vecchie case ogni volta che il buon Dio decideva di lavare questo nostro mondo dalla lordura degli uomini rovesciando dal cielo i secchi d’acqua che aveva raccolto con le lacrime delle sue creature in terra.

Anche Maria s’era alzata di buon’ora e dopo aver spalancato le imposte era uscita di casa.

Percorso lo stretto sentiero che saliva tortuoso costeggiando un muricciolo di sassi, entrò in paese dirigendosi sveltamente alla bottega per acquistare quel tozzo di pane croccante e quel fiasco di vino che dovevano bastarle per pranzo e cena.

Il beccuccio che le raccoglieva  i capelli corvini disegnando  l’ovale del viso lasciava cadere qualche ricciolo ribelle , la giovane li tirava da parte  di tanto in tanto soffiandoli via quando sempre più dispettosi le si posavano sugli occhi . Occhi curiosi che spiccavano con un colore nero intenso su quel volto grazioso, occhi fieri,  noncuranti degli sguardi dei pochi mattinieri che la fissavano chiedendosi perché mai quella bella figliola avesse lasciato il paese natio per cercare lavoro a Roma.

Tutti odiavano quel cantuccio di mondo in cui erano relegati, tutti tranne Maria che l’amava tanto da scappar via perché non lo sentiva più suo, ridotto com’era a tana di sospetti e calunnie .

Le scorie del fascismo in agonia avevano spaventato i signori  del paese collusi con il regime , soprattutto quelli che erano  andati a cercar fortuna nella capitale ed ora tornavano di gran carriera in quell’angolino d’Italia per sfuggire alle vendette e alle epurazioni delle grandi città. Il rancore covato per tanti anni dalla povera gente sfruttata e bistrattata era pronto a esplodere .

Maria , perso il papà nella Grande Guerra e la madre pochi mesi dopo, era stata affidata insieme alla sorella  alle “cure” degli zii.

I pesanti lavori cui era stata costretta e il falso affetto in mezzo al quale era cresciuta l’avevano resa sospettosa . Nel suo animo si celava un sordo livore verso tutto e tutti , provava un profondo odio per la miseria in cui si dibatteva ,si sentiva inerme in quell’atmosfera crepuscolare che non sembrava lasciargli scampo. Poco più che adolescente aveva deciso di fuggire quella povertà che pareva soffocarla.

A Roma aveva trovato lavoro nelle  cucine di un collegio di orfani che avevano più o meno la sua età. I pentoloni da lavare,  raccontava , erano talmente grandi che per pulirli ci si poteva persino infilare dentro.

“Che mondo è mai questo?” si lamentava “C’è posto soltanto per i signori  e i disonesti !” . Nonostante tutto però tirava dritto per la sua strada per quanto penosa questa si presentasse.

Tra lei e Gabriele non c’era mai stato niente di serio,ma la fanciullezza trascorsa  insieme a dar la caccia alle lucertole  o a fare il bagno nel fiume gonfio che strappava arbusti e canne portando via tutto con quella sua allegra furia, avevano convinto il giovane che Maria fosse cosa sua ed era predestinata prima o poi a diventare sua moglie.

Lei gli voleva bene ma quel pastore puzzava troppo di miseria,quella stessa miseria che  fuggiva  e per la quale era scappata dal deserto di quel postaccio dimenticato da Dio e dagli uomini dove tornava assai di rado.

Percorso l’ultimo tratto di strada entrò nell’emporio ,comprò quel che doveva ed uscì fingendo di non sentire la voce pettegola della vecchia Rosina che , gesticolando e mettendosi i pugni sui fianchi , insisteva per sapere dove andasse così di corsa.

Non voleva avere niente a che fare con la gente del paese e , se tornava là di tanto in tanto , era solo per sistemare alla meglio l’unica cosa che sentiva sua, la vecchia casa paterna che per quanto decrepita e pericolante nessuno avrebbe mai potuto portarle via.

Fu proprio lì che fece ritorno poco dopo. Gabriele l’aspettava  sulla soglia , appena la vide aggiustò la sigaretta tra le labbra senza accenderla e le si fece incontro con il passo deciso e il piglio di chi non vuol sentire ragioni.

“Cosa vuoi?” domandò determinata Maria anticipando la rabbia del ragazzo , spegnendo in lui ogni proposito di collera.

“Niente ... tanto è inutile “ sospirò quello infilando le mani nelle enormi tasche dei pantaloni, “ che fai? Resti qualche giorno?”

“Il tempo di dare una pulita e riparto!”

“Ma a me!” urlò “Non...non ci pensi? ” balbettò ben conoscendo la risposta.

“Neanche un po’!” proclamò brutalmente la giovane soffiando via i capelli che un alito di vento le aveva fatto finire sulle labbra .

La discussione si protrasse ancora per qualche minuto finché Gabriele sbottò.

“ Va’ pure, va’ a fare la puttana in città ! Non m’importa niente! Vattene pure....vattene!” bofonchiò ormai rassegnato “Non m’importa più di niente...” ripeté chinando il capo come a convincere se stesso.

Tirò fuori una mano per accennare un gesto di saluto, poi , tirando da parte il lembo della giacca l’infilò nuovamente in tasca, tirò fuori un accendino e accese la sigaretta ancora penzolante dalla bocca.

“Poveretto!”pensò Maria “ma la deve capire una volta per tutte che portare a spasso vacche tutto il giorno non  fa per me!”

 Sapeva che quello era l’unico sistema perché si mettesse l’anima in pace e la lasciasse andare . Lo seguì con lo sguardo finché scomparve oltre la curva del sentiero, poi , quando i rami dei cespugli  tornarono ad intrecciarsi dietro le sue spalle , si voltò ed entrò in casa.

Si trattene poco più di un’ora poi, impugnando una pesante borsa di stoffa , uscì, bloccò con tre mandate il portoncino, si assicurò che fosse ben chiuso  facendo pressione con la mano aperta e riprese il suo cammino.

 Scese lungo un ripido declivio fino ad incrociare il sentiero che portava fuori dal paese,di fronte si ergeva maestoso un grande villino ben diverso dalle misere stalle del villaggio , le inferriate ai balconi erano ingentilite da riquadri di vetro giallastro. Una solida cancellata in ferro impediva l’accesso allo scalone che portava di fronte al portone d’ingresso dove zampettavano un paio di galline infastidite da un cagnetto sparuto e ridicolo che gironzolava intorno all’aia.

Alla sinistra dell’edificio un grande pino si stagliava imponente contro il cielo inchiodato a radici millenarie. Il fogliame risaliva lungo il tronco fino a sfociare in una larga chioma , tra le fronde le foglie verde scuro, ora opache ora quasi rilucenti,erano colpite  dal tenue riverbero del sole sulle rocce.

Sulla destra sorrideva un orticello ben curato , morbido ed erboso, gaio in specie là dove germogliavano  piccoli fiori giallo oro che andavano a nascondersi tra i fitti cespugli che abbracciavano quel giardino profumato. Il silenzio era spezzato dai tonfi delle lenzuola sbattute contro le pietre e nell’acqua , lì accanto infatti , curva sul fontanile, una donna lavava un mucchio di biancheria che le sfuggiva dalle mani insaponate. I seni appena accennati le si agitavano sotto il vestito a tempo con le braccia. Alcuni riccioli bianchi già le si distinguevano sul  capo  , una veste azzurra si dimenava disperata tra le mani arrossate , intirizzite dall’acqua gelida .

Come ne avvertisse la presenza sollevò lo sguardo e vide la sorella.

”Ciao Linda!”

“Maria! Eccoti finalmente!” rispose infervorata Linda finendo a colpi di sapone la veste finita sul bordo della fontana ”Questa volta resterai di più in paese vero?”

“Riparto!Non vedi?” Replicò sollevando senza apparente sforzo il borsone dove aveva raccolto gli stracci che non aveva indosso e le vivande acquistate poco prima

“Vieni almeno a salutare la signora...”

“Non ci penso nemmeno!”bofonchiò con tono indisponente l’altra .

In quel momento sbucò dal portone della villa una donnetta gracile, sulla quarantina, slavata in viso , con due occhietti piccoli e furbi. Dietro di lei  il fratello , zi’ maestro , come lo chiamava la brava gente del paese, un bell’uomo dall’aspetto vigoroso , dai modi cortesi e dal portamento distinto.

 Alto, asciutto e dotato di un certo fascino , doveva avere più o meno cinquant’anni. Era un brillante scrittore , esperto d’arte e di poesia che,   costretto dagli eventi , era andato a seppellirsi in quel buco d’Abruzzo e si era adattato ad istruire i mocciosi del paese cercando a fatica d’insegnar loro almeno a leggere , scrivere e far di conto . La barbetta grigia , ben curata,  incorniciava un volto severo , non per questo privo di garbo. Ai più poteva apparire  austero e distaccato , ma nel suo sguardo non si scorgeva la superbia , sembrava piuttosto un individuo discreto e riservato.

“Ciao Maria” disse la donna rivolgendosi alla figura ritagliata accanto al cancello ”come mai sei tornata?”

“Buongiorno Signora” poi, rivolto lo sguardo  all’uomo che nel frattempo si era incamminato lungo il viale alberato che portava al vigneto ”Buongiorno zi’ Maestro!”

“Salve cara...”rispose quello senza neppure voltarsi.

“Sono venuta a sistemare casa ed ora riparto” aggiunse Maria tornando a rivolgersi alla donna.

“Non scendi un momento?” 

“Grazie, ma perdo la corriera.” poi rivolta di nuovo alla sorella,  domandò :

”Dove posso trovare Luca?”

“Chi? Quello scansafatiche? Lo troverai di certo a fantasticare lungo la strada.”

“Bene.Ora devo proprio andare. Addio. ”

“A presto...” sospirò Linda accompagnando con lo sguardo la snella figura della sorella  finché non scomparve oltre la curva.

“Vecchia zappetta ! “ pensò mordendosi le labbra per non piangere continuando a massacrare quel povero vestito “Lei non l’ hai domata come me...”

Anche Maria come Linda aveva lavorato a lungo per quella famiglia che durante il regime si era arricchita alle spalle della povera gente sfruttando umili mezzadri e pastori ignoranti .

Linda tornò con la mente a qualche anno prima.