DIARIO
Fuga per la libertà
Era di tutta evidenza come il precario impiego in agenzia non avrebbe potuto garantirmi un guadagno adeguato alle necessità che di lì a poco meno di nove mesi la nuova situazione avrebbe richiesto, così Piero, pungolato dai miei, mosse alcune pedine e riuscì a farmi inserire tra i partecipanti ad una borsa di studio presso la "Società Italiana per Condotte d'acqua". L'azienda avrebbe poi scelto, tra una rosa di pretendenti, alcuni fortunati da inserire in pianta stabile nell'organico dell'azienda.
Il corso si svolgeva per lo più nei molteplici cantieri edili allestiti dall'impresa lungo l'italico stivale e per brevi periodi a Roma all'interno di un fantascientifico edificio simile ad un'astronave aliena costruito sotto il manto erboso di Villa Borghese, un'inquietante aula circolare sovrastata da una gigantesca cupola.
Accadde così che proprio mentre Alessandro cresceva nel pancione della madre, tornata nel frattempo a casa dei genitori ,io non potevo esser loro accanto che per brevi periodi.
Attraversai da nord a sud l'intera Penisola fermandomi per qualche tempo prima nelle Marche nelle vicinanze di Cingoli, poi in Campania dove "Condotte" stava realizzando un porto nei pressi di Salerno, e infine in Sicilia dov'era in costruzione un'autostrada .
Insomma, due palle così. Così come? Così.
Non ero tagliato per quella vita da vagabondo né per rispondere "Signorsì, sissignore!" a scostanti geometri ed ottusi ingegneri che non capivano un cazzo e non vedevano al di là della loro carta millimetrata , non tardai a rendermene conto.
Ero proprio giù di corda, cominciai a star male, non volevo più saperne di stare lontano dalla mia nuova famiglia ,quell'impiego da anonimo ragioniere consacrato alla compilazione di buste paga e al conteggio di straordinari e giorni di malattia non faceva per me.
Così una notte, mentre mi trovavo prigioniero di una scatola di lamiera, una delle tante che sagomava il desolato agglomerato di un polveroso cantiere autostradale poco lontano da Siracusa, presi l'unica decisione possibile, chiusi l'albo di Tex che al solito mi teneva compagnia in ore tanto tristi, lo infilai nella valigia insieme ai panni sporchi e a quelli puliti ,raccolsi le mie cose e scappai via.
Un viaggio surreale in una notte fatata ,infagottato da un'atmosfera ovattata ritmata dal sordo rumore dei vagoni che inciampavano sui binari prima e dal lento sciabordio del mare che sferzava i fianchi del traghetto poi, trascorsi la notte ad osservare, stregato, i paesi e le città che mi scivolavano accanto risucchiati dal finestrino.
Il convoglio ferroviario, infilato nella pancia della nave il tempo necessario per attraversare lo stretto di Messina, toccò nuovamente terra qualche ora dopo sul continente e riprese subito la sua corsa verso la capitale scaricandomi diverse ore dopo alla stazione Tiburtina.
Pioveva che Dio la mandava, secchiate d'acqua gelata che sembravano finalmente svegliarmi da un inspiegabile torpore durato troppo a lungo, affrettai il passo per superare prima possibile la breve distanza che mi separava ancora da quel che avevo di più caro al mondo, inzuppato fino al midollo respiravo a piedi polmoni l'aria di casa, suonai al citofono di via dei Foscari, qualcuno mi aprì, salii al quarto piano, la mia Lety era lì ad aspettarmi la mano sul ventre tesa ad accarezzare il piccolo.
I miei familiari non sembravano in grado di comprendere il mio stato d'animo né avevano la minima intenzione di condividere la mia scelta quasi fosse stata frutto di un capriccio, forse in un primo tempo neppure mia moglie, ma tenni duro e proseguii per la mia strada, non avrei più permesso a nessuno,sia pure animato dalle migliori intenzioni, di gestire la mia vita al posto mio.
Tornai a lavorare per papà con la segreta speranza questa volta di restare alla base, i soldi non bastavano nemmeno per superare la prima settimana del mese ma non m'importava ,nutrienti frittate e padellate di pasta al sugo sarebbero bastate in attesa del ritorno delle vacche grasse.
Tornammo a Ladispoli nella nostra casetta al di là della marana, adoravo quel posto, all'alba sorseggiavo il mio caffè sul balcone prima di recarmi al lavoro godendomi la brezza impertinente del mattino,lo spicchio di mare incastrato tra i palazzoni di fronte incorniciava il mio sguardo appeso al di là della ringhiera.
Quando il clima lo consentiva facevo un salto in spiaggia per ascoltare il rumore delle onde che si accanivano sulla battigia, gli occhi socchiusi,le guance rosolate, abbandonavo le palpebre al calore del sole lasciando verniciare il mio mondo di rosso scarlatto, poi mi sedevo su quella sabbia fresca e la lasciavo scorrere tra le dita dei piedi nudi.
Non di rado mi recavo presso la biblioteca comunale per prendere in prestito qualche buon libro da leggere sul vagone che quotidianamente mi conduceva alla stazione Termini .
Un lieto bozzetto da vivere al rallentatore in definitiva, da provinciale quale io ero allora ed in fondo sono rimasto tuttora,l' imprinting del freddo assicuratore su un tenero cuore di poeta.
Accanto alla mia dolce metà che in quella particolare fase era tutt'altro che metà attesi emozionato di diventare padre e nell'attesa assaporai l'esaltante vittoria degli azzurri nella mitica finale del campionato mondiale di Spagna, insieme a uova strapazzate e patate fritte. Cominciai in quel periodo ad apprezzare le eccellenti qualità terapeutiche del bicarbonato fino ad abusare in breve di quella miracolosa polverina bianca e a superare il concetto di modica quantità.Accadde così che, unitamente a quella della burrosa gestante, cominciò lentamente a lievitare anche la mia trippa assumendo in breve la forma di una tradizionale pancetta da "cummenda",i miei altezzosi e granitici addominali scomparvero ingoiati da imbarazzanti rotoli acciambellati mentre il torace abbozzò, laddove un tempo delineava l' atletico profilo dei pettorali, un paio d'inquietanti tette rigonfie.
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