DIARIO
Preparativi di nozze
Dovetti attendere il 1981 per trovare un impiego appena più stabile negli uffici dell'Enasco di piazza Gioacchino Belli.
Gianna, affabile e paffuta cugina della mia spasimante, al corrente della precarietà della mia situazione e della pruriginosa impazienza della consanguinea di prender marito si diede da fare e riuscì a trovarmi un'occupazione ,sia pure ancora una volta a termine, presso quell'ente parente povero dell'Enasarco.
Trascorsi circa un anno in quelle grandi sale di Trastevere .
Incantato dagli alti soffitti ornati di fregi marmorei e circondato da colonne monumentali, svolsi i compiti più disparati e finii per fare amicizia con un gruppo di spassosi balordi, colleghi di lavoro e chiassosi ultrà giallorossi con i quali divisi in quei giorni le ore lente che portano a sera.
Di tanto in tanto interrompevo il lavoro per sbirciare oltre i giganteschi finestroni che affacciavano sull'isola Tiberina e contemplare i riflessi del sole ,dardi infuocati al mattino lampi vermigli al tramonto, che trafiggevano le acque ferme del Tevere e ad ascoltare rapito, quando i motori delle auto e le marmitte delle moto lo consentivano, lo svogliato sciabordio del fiume.
Ma anche quell'impiego terminò,lo confesso, questa volta fu più difficile lenire il dispiacere e temperare l'amarezza , riuscii tuttavia ad ingoiare anche quel rospo, salutai gli amici ringraziai la mia gentile benefattrice e tornai a Canossa, familiare località al civico 14, piano quarto, interno 10 della nota piazza sita tra il viale Somalia e il viale Etiopia che diede i natali al sottoscritto.
Il fuoco vivo con il quale avevo affrontato , ebbro d'entusiasmo, quell'ultima esperienza di lavoro era stato arrestato ancora una volta dalla diga eretta dall'ostinata realtà e, smorzato toni e colori ,aveva finito per spegnersi.
Datemi un fazzoletto!
Avevo le polveri bagnate, mi avvicinai così con atteggiamento dimesso alla corte dell'avvocato Tiddi per annusare il vento che soffiava.
Gli proposi una mia eventuale assunzione in pianta stabile nella ditta di famiglia, occupazione che mi avrebbe finalmente consentito di sposarmi, ovviamente venni sconsigliato da moglie e marito, gli ero rimasto solo io, non mi diedi per vinto, mi sentivo ormai costretto nei panni di figlio, era arrivata l'ora di cambiare aria, abiti e compagnia .
Dopo la partenza di Piero per via Sicilia prima Paolo poi Aurora avevano liberato gli armadi e gli scaffali delle loro stanze per traslocare con le rispettive metà in viale Etiopia il primo e in via dei Siciliani la seconda,l'appartamento di piazza Gondar che fino a qualche anno prima stentava ad accogliere tanti ospiti turbolenti e rumorosi era diventato improvvisamente troppo grande e malinconicamente silenzioso.
Obtorto collo il neoprincipale finì per cedere, m'avrebbe inizialmente assunto, necessariamente in nero, dietro un compenso di trecentomila lire al mese, il problema dell'alloggio lo avrei risolto chiedendo in prestito ai suoceri l'appartamento di Ladispoli, il resto sarebbe venuto da sé o almeno così mi auguravo, col tempo le incertezze sarebbero diventate certezze ,i sogni realtà, mi sbagliavo la sicurezza e la serenità non sono di questo mondo ma allora m'illudevo lo fossero.
Non persi altro tempo,nel giro di pochi mesi grazie all'opera e al talento del cuginastro Fabrizio ,muratore,imbianchino,elettricista ed ebanista,una sorta di puffo inventore, il modesto alloggio sul litorale laziale che avrebbe accolto la nuova famigliola fu imbiancato e restaurato .
Nel frattempo la mia promessa sposa lanciandosi a briglia sciolta ,con impeto degno di miglior causa,nell' organizzazione del principesco matrimonio si occupò degli sciagurati preparativi e delle consuete incombenze che precedono tali rovinosi eventi.
In un batter di ciglia ,senza quasi rendermene conto né aver fatto nulla per impedirlo o agevolarlo, mi trovai accanto a lei di fronte all'altare di San Giuseppe dei Falegnami vestito come un pinguino e bianco in volto come un cencio ad ascoltare attonito il predicozzo di Don Ronzani e a meditare sul prima e sul dopo.
Al posto delle confortevoli e dilatate adidas ai miei piedi, stretti nella morsa del martirio, erano comparsi un paio di mocassini a punta, neri come la morte, salendo lungo l'esile figura ,immobile nella solennità della cerimonia , là dove ampi e morbidi jeans esaltavano le malcelate grazie di un maschio senza pari, orribili pantaloni a tubo blu notte contorcevano, rendendo il tormento indicibile, quelle stesse formosità stritolandole e fasciando allo stesso tempo le due chiappe ben tornite un tempo libere e separate come le metà di un albicocca matura.
Il miracolo era avvenuto e l'intero perimetro dei fianchi era stato disegnato dalla cintura senza saltare neppure un passante .
Al di sopra della rilucente fibbia dorata la comoda "Levis" azzurra, slacciata al terzo bottone, le maniche arrotolate, era stata sostituita da una rigida camicia bianca insopportabilmente aderente in specie là dove due spietati bottoni intrappolavano i miei teneri polsi .
Assolutamente disavvezzo a tali mostruosità il gargarozzo, triturato da un crudele colletto inamidato, pativa inerme lo strazio di un cappio infernale, grigio a pois bianchi, prossimo a strangolarmi.
Completavano lo scempio un attillato panciotto e una corta giacca blu.
La confezione era pronta io un po' meno.
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