Capitolo 9
“ Ogni volta che rimiro la
cara fotografia sono dolorosi ricordi che mi salgono dal cuore,ricordi che
vengono a ripresentarmi come in uno specchio la vita di colui che fu per me il
buono e affettuoso dei padri.
Appena entro nella mia
stanzetta il mio sguardo è là: sulla fronte alta e spaziosa cade una piccola
punta di capelli,gli occhi sono neri, fieri,scintillanti,si che in egli
traspare l’uomo schiavo e ligio al lavoro e al dovere, l’acutezza d’ingegno, la
volontà indomita di persona di carattere; dalle labbra ornate d’un bel paio di
baffi neri traspare un sorriso calmo quasi mesto che rende più cara e più bella
la fisionomia dell’uomo che non è più.
Persa la mamma ,rapita
anzitempo al nostro affetto,il non aver avuto la consolazione di conoscere colei che ci diede la vita, chiamarla
col dolce nome di madre, doveva già essere un dolore tanto grande per tener
lungi da noi questa nuova grande sciagura. Ma no! Per noi era già riservato un
calice dal quale avremmo dovuto bere fino all’ultima goccia il fiele amaro;
capì che la morte della mamma segnò il principio di quella sequela di disgrazie
che dovevansi abbattere sul nostro
capo.
Ma dunque, babbo, eri già stanco della vita? Non volevi più bene
ai tuoi figli,non li amavi più? O infame se osassi proferire tali ingiurie.
L’amore che aveva per i suoi
figli, il desiderio immenso di vederli felici fu quello che lo spinse fino al
colmo dell’eroismo al quale possa giungere un padre; al sacrifizio della sua
santa e nobile vita volle affidare la felicità dei suoi figli.
Quel sacrificio fu grande,
immenso: la salute malferma, il lavoro assiduo, opprimente, le veglie notturne,
lo sforzo di quella volontà tenace, ferma, salda, temprata alle aspre e forti
battaglie della vita, colla quale abbiamo difficoltà insormontabili; tutto
s’infrange contro il male che doveva condurlo anzitempo alla tomba.
Quale il tarlo roditore che
lento rode e buca il legno fin che questo non marcisce ed invecchia anzitempo,
tal fu l’opera del male nefasto, che fin
della sua giovinezza ne minava l’esistenza lentamente, segretamente,
quasi pauroso di palesarsi, finché stanco di lavorare all’incognito, diede il
tracollo e segnò egli il principio di un’era di nuovi dolori e di nuovi
affanni.
Pure qualche cosa me lo
diceva, uno strano sentimento mi presagiva che una disgrazia doveva accadere:
vedere il babbo cadere di tanto in tanto ammalato, l’accusare di sentirsi poco
bene; il vedere quegli occhi dai quali traspariva tutta la sua volontà, tutta
la sua energia, che quando ci fissavano ora per rimproverarci, ci facevan
tremare, ammutolire; ora invece per darci una lode ,un consiglio ci si poteva
leggere quanto ci amasse, il vederli erranti per l’aria languidi, fissi verso
l’infinito, e il vedere qualche lacrima furtiva scendere sulla scarna guancia
erano cose che mi straziavano l’anima e piangevo.
Si piangevo e il pianto era
un pianto amaro….amaro.
La crisi tremenda che
avrebbe dovuto portarlo anzitempo alla tomba gli prolungò invece i suoi
dolori,aggiungendo a quelli materiali quelli morali.
Il giorno del fatale
distacco venne, i medici dicevano che era necessario, imperioso allontanarlo
dalla famiglia, ed il primo passo che mosse verso la soglia per allontanarsi la
casa fu il primo passo del doloroso esilio,il primo passo col quale cominciò a
salire l’erta del suo calvario, fu il primo sorso del calice amaro dal quale
avrebbe dovuto trangugiare goccia a goccia il fiele amaro fino all’ultimo
sorso.
Là, lontano sulle spiagge
del mare , fissando le onde rispecchianti l’azzurrino del cielo, l’esule, il
martire con quanta nostalgia ripensava alla sposa adorata colla quale aveva
vissuto anni felici, con quanto dolore avrà ripensato ai figli lontani, quei
figli che amava con tutte le forze dell’anima, quei figli per i quali aveva
sacrificato tutto, le sue energia, le sue forze, la sua vita.
Quale ansia mortale non avea
occupato quel cuore a vedere l’avvenire oscuro, incerto che per egli era
riservato? Il veder crollato nel nulla il lavoro di tanti anni, il veder
infranto tutto l’edificio d’agiatezza e di benessere che dal nulla aveva
innalzato, l’abbandono nel quale lo lasciavano coloro che per primi, almeno per
puro sentimento di dovere avrebbero dovuto accorrere a lui per sollevarlo, a
sussurrargli una parola amica, una parola di conforto, erano queste cose che
per un’ anima generosa e grande che servivano maggiormente a deprimere le forze
morali, ad accentuare sempre più il suo dolore, a rendergli più desolante e
languida la sua solitudine.
Sul suo volto smagrito si
vedevano le tracce delle torture, delle angosce per le quali era passato.
Da tutta la sua persona
traspariva un’ aria abbattuta ,un sentimento di dolore che dava a vedere in lui
la stanchezza di una continua lotta con un male fisico e morale.
In certe ore della vita si rivela possente nella creatura umana il
pensiero che la morte è vicina, ed egli il povero malato quante volte l’avrà
provato. E l’idea di dover abbandonare per sempre la sposa, i figli, tutto
quello che aveva di più caro quaggiù, certo gli avrà messo in cuore una certa
agonia mortale.
Un altro uomo avrebbe dovuto
di certo soccombere sotto il peso di tante calamità e di tanti affanni, lui no,
pareva invece che la sua anima forte, temprata già alle aspre battaglie,
l’ingagliardisse ed attingesse novella forza per sopportare tutto con
rassegnazione.
E’ vile e codardo l’uomo che
colpito da calamità, da dissesti finanziari o da qualsiasi altra sciagura umana
si toglie la vita, dando egli nuova prova di poca fermezza di carattere; ma il
sopportare tanto, fino all’eroismo, non so se è da uomo o da essere
soprannaturale. Calmo sempre, sereno, rassegnato, fidava sempre nell’aiuto di
Dio e nelle sue mani si era abbandonato.
Ma da quale fonte, da quale
forza arcana attingeva quell’eroismo, quella rassegnazione eroica, santa,
quella speranza, quella fede incrollabile? Fede degna di un martire, e martire
lo era! Quella fede che non l’abbandonava mai ?
Dalla preghiera! Si, colla
preghiera si rassegnava,colla preghiera sperava, nella preghiera fidava.”
A questo punto aveva termine
la prima parte dell’epistola, un fregio infatti la divideva dalla seconda che
così proseguiva:
“E qui sono nuovi ricordi
che mi risorgono alla mente.
Mi par di vederlo ancora
quando lui malato, steso sul suo letto di dolore, quale gioia non provava nel vedermi, e mi stringeva a se, mi
baciava, mi raccomandava di essere buono, di sperar sempre nel buon Dio che lo
avrebbe guarito; di amare e rispettare la mamma buona; di amarti e di
proteggerti, mia cara Annina, insieme ai cari e piccoli fratellini.
Nobile e santa la missione
che egli mi ha lasciato, ma sarò io in grado di adempierla?
La sua flebile voce scendeva
nel mio cuore come una dolce musica ed io ascoltavo con filiale devozione i
paterni consigli.
I suoi occhi si fissavano in
me ed in quelle languide pupille già presso a spegnersi leggevo quanto grande
ed infinito era l’amore che aveva per noi, ed ora facendomi vedere accanto al
suo capezzale, ora invece quando il tempo lo permetteva e la sua salute
recandomi nella bella terrazza ove i fiori crescevano sotto la sua cura
paterna, amava che io mi intrattenessi con lui in lieta e dolce conversazione.
Quale sollievo non provavo nel renderlo oggetto delle mie cure premurose,
portarle notizie della famiglia, di te, dei bambini!
Ed anche di te,si anche di
te, mi chiedeva mia adorata Nannina? Te lo ricordi quando ti venivo a
trovare ti portavo la sua benedizione,
i suoi baci, i suoi saluti e quando a lui dicevo che tu pregavi sempre per lui
il buon Dio, che desideravi con tutta l’anima di baciarlo, di abbracciarlo,
quando a lui dicevo che la tua vita e la mia l’avremmo sacrificata volentieri
per lui, che tu desideravi a voce di dirgli che l’amavi con tutta l’anima, egli
non mi rispondeva, ma come eloquente risposta vedevo quegli occhi alzarsi verso
il cielo come in una muta preghiera, poi una lacrima scendeva furtiva per le
scarne gote.
Non dimenticherò mai quel
giorno, quando a lui che lo desiderava ardentemente gli portai la sorellina più
piccola che piangeva sempre chiamandolo a nome: quale gioia di paradiso non
mondò quel suo cuore straziato dal dolore; prenderla, stringerla al seno e
baciarla in una frenesia convulsa erano cose da strappare le lacrime ad un
cuore di pietra, ed anch' io piansi, piansi contento di aver fatto brillare anche per un istante in
quegli occhi un barlume di felicità.
Talvolta con parole piene di
santa rassegnazione mi faceva capire quanto soffrisse nel vedersi ridotto in
quella vita d’inerzia, lui assiduo, lui operoso, abituato al lavoro e
sperava…sperava sempre che lo avrebbero richiamato all’antica posizione, e
queste vane speranze lo accompagnarono, lo sorressero fino all’estremo sospiro!
Quanto non soffriva l’anima
sua nel vedersi costretto a vivere lontano dalla casa, dalla famiglia, da noi
suoi figli! Quante volte abbracciandomi con affetto mi diceva “figlio mio, il
vedermi lontano da voi, in non potermi saziare della vostra vista, il non
potervi vedere felici, per quella felicità per la quale ho sacrificato me
stesso, è per me il maggior dolore che mi si possa infliggere”.
La solitudine non era fatta
per lui; un tempo, lui felice , non gli pareva che ci fosse un mondo più bello
al di là della sposa e dei figli che riempivano tutto il suo cuore. Quella
solitudine gli riempiva l’animo di più acerbo dolore, pareva avesse paura di
trovarsi solo.
O quante volte trovandomi a
lui d’ accanto, contento e felice di vedermi a se vicino, abbracciandomi, le
lacrime sgorgavano dai nostri occhi e scorrevano pure e limpide come stille di
rugiada.
Un sentimento dolcissimo,
casto come l’amore, immateriale come il sacrifizio, si accendeva nelle nostre
anime, ci sollevava dalla terra per darci un’idea della vita degli angioli,
delle dolcezze del Paradiso, e mi faceva parte delle sue gioie, dei suoi dolori
delle sue speranze, dei suoi disinganni, delle sue tristezze ed il suo dire
accelleravasi o rallentavasi a seconda del tenore della conversazione.
E che dire dell’ultima
Pasqua che passò in famiglia ?
Il giorno Santo desiderò
passarlo nella dolce compagnia, ed in quel giorno non parve quasi malato, parve
ringiovanito di tanti anni. Circondato dalla cara sposa, da noi suoi figli si
beava della nostra vista e su quel volto emaciato dai dolori brillava una gioia
infinita.
Quel giorno più degli altri
era tormentato da una tosse ostinata ed ogni colpo di quella tosse era per me
come il ricevere una pugnalata al cuore: una tosse così secca, ostinata, che mi
faceva male a sentirla.
Quale dolore, quale strazio,
quale trafitta al cuore non avrà egli provato?
Ma il povero martire
sopportava tutto in silenzio,con rassegnazione.
Se alcune rughe della fronte
appalesavano la traccia indelebile dei dolori passati e presenti, se il suo
brumo e perenne pallore tradiva la reazione divoratrice e concentrata di
un’idea fissa e di un pensiero persistente, trovandosi in mezzo alla famiglia
dimenticava tutto, si beava della contemplazione della nostra fiorente gioventù
,della bellezza dei figli suoi, dell’amore eroico, santo e puro della sposa. Il
suo sorriso era pieno di calma e di serenità; i suoi occhi raggiavano di
fiducia e di affetto, seduto vicino a noi le sue mani stringevano con tenerezza
or l’uno or l’altro, deponendo sulla fronte come per benedizione il suo bacio
affettuoso, mentre fissando in noi il suo sguardo vi si traluceva ad un tempo
tutto il suo amore paterno, tutto l’eroismo di quell’anima grande e nobile.
Pochi giorni prima ch’egli
morisse, quasi presago della prossima sua fine, volle donarmi una sua
fotografia che aveva fatto fare espressamente. Nel darmela ricordo ancora che
le lacrime sgorgavano copiose dal suo ciglio e così mi parlò:
“Prendi figlio mio,
accettala in pegno del mio amore per te, altro non posso fare! Tienila sempre
teco, e quando i dispiaceri, le disillusioni ti amareggeranno l’anima ti
rammenterai come tuo padre ha sopportato tutto con rassegnazione; quando
difficoltà ti si presenteranno ad ostacolarti il raggiungimento della tua meta,
ti sovverrai con quanto ardimento e costanza tuo padre le ha combattute e
felicemente superate”
Con affetto leggo ancora la
piccola dedica:
“A mio figlio Raffaele,
perché rammenti sempre i miei affettuosi consigli e i miei paterni ammonimenti,
la mia benedizione.”
Il pennino disegnava
abilmente una nuova ricercata decorazione , questa volta forse una sorta di
sigla ,poi, indicata la nuova data del 25 aprile 1913 nel rigo successivo,
continuava…
“Giorno doloroso e
d’infausta memoria per la mia vita.
Verso le ore 10 del mattino
una telefonata della zia mi annuncia che il babbo è moribondo: con la morte
nell’anima corro all’ospedale dal babbo.
Chi avrebbe mai preveduto un
aggravamento così repentino?
Entrai nella camera, egli
non avvertì la mia presenza, aveva l’immobilità di uno spettro, e guardava con
occhio fisso senza parlare un punto nella stanza.
Sul pallido volto si
rifletteva una placida calma, esso aveva compiuto ormai il grande e terribile
atto della rinuncia a tutte le cose, a tutti gli affetti di questa vita.
La mamma presso di lui lo
confortava colla preghiera.
In uno slancio d’amore
filiale mi gettai al suo collo e con frenesia lo abbracciai, lo baciai. Tutto
il suo corpo tremò come agitato da repentina scossa, i suoi occhi dilatati,
smarriti, restarono fissi nei miei, sulle sue labbra livide passò un lieve
sorriso, finché alzata la sua mano destra me la passò sulla fronte chiamandomi
per nome.
Dapprincipio mi guardava con
i suoi occhi aperti che parevan voler squarciare coll’intensità di quello
sguardo fisso il denso velo che gli avvolgeva la mente e parve assopirsi.
Ma un nuovo bacio impresso
su quella fronte livida ed il suono delle mie parole lo fecero rianimare. Il
suo viso prese una tinta di carminio, il suo cuore si ravvivò.
Mi sorrise di nuovo; colla
disperazione nell’anima lo abbracciai e ribaciai e: “Padre mio gli dissi, dammi
la tua santa benedizione,perdona al figlio tuo i dispiaceri che ti ha dato!”
E stringendomi a se,
“Raffaele,figlio mio” mi diceva “avvicinati ancor più, la mia voce è tanto
debole, non ho che un soffio di vita, voglio che questo soffio penetri sino
nell’anima tua. Come figlio, tu comprendi che ho ancora poche ore di vita;
prima di lasciarti voglio dirti tutto ciò che il mio cuore racchiude per te; tu
sei stato per me un figlio affettuoso, rispettoso, tu non preferirgli mai
nessuno al tuo padre che se ne va e che non rimpiange sulla terra altro che la sua
cara famiglia”.
Io muto compreso tutto dal
momento solenne, del quale ero spettatore, ascoltavo con filiale devozione
quella voce debole che s’insinuava nelle più profonde fibre del mio cuore e mi
faceva comprendere il tragico significato di quel momento; coll’anima
amareggiata, cogli occhi fissi su quel corpo quasi esanime, su quegli occhi
presso a spegnersi, piangevo amaramente.
Ma il morente continuava
“non ti intenerire figlio mio, sii forte; siamo uomini e dobbiamo essere forti,
quando non sarò più voglio che ti ricordi le mie ultime parole, accettale come
testamento”.
“Parla babbo, ascolto ed
ubbidirò.”
“Giunto al termine della mia
vita, sono sempre più convinto che la legge del sacrifizio è la prima regola
alla quale dobbiamo attenerci per essere felici, quando io non sarò più
rammentati di seguire quella che è stata per me la legge di tutta la mia vita:
rinunciare alle proprie passioni per adempiere i propri doveri, non tener conto
altro che di Dio e della propria coscienza”.
S’arrestò aveva detto abbastanza,
troppo forse, ma in quel momento la diga era rotta, le dolorose impressioni
ammassate da lungo tempo, la disperazione soffocata, scoppiarono: se non avesse
potuto parlare il suo cuore sarebbe scoppiato.
Quale forza morale aveva
bisognato a quell’uomo per dissimulare tanto bene quel rimpianto immenso che
gli rodeva l’anima, che lo divorava a fuoco lento?
Dinanzi a quell’esplosione
di tenerezza paterna io rimasi pietrificato, annientato.
“Ora figlio mio – proseguiva
– voglio da te un giuramento sacro e solenne, amerai e rispetterai con
devozione illimitata colei che è stata per te la tua seconda mamma; ama la tua
sorella, ella ha grande bisogno delle tue cure, ad essa sii guida nella vita,
ama i fratellini perché essi son degni del tuo amore! Me lo prometti figlio
mio?”
Scoppiai in lacrime e
compreso dalla sacra solennità del momento risposi :
“Si babbo te lo prometto! Te
lo giuro!”
Tuttora mi par rivedere la
scarna mano alzarsi e benedirmi, indi la sua persona riprese la solita
immobilità, mi guardò ancora un momento, poi rovesciò la testa sui guanciali.
L’emozione aveva dovuto
abbatterlo,volse gli occhi attorno, si toccò la fronte, mi sorrise col fare di
un fanciullo, poi abbassò le palpebre e si addormentò.
Era il sonno che prolungava
l’agonia; il respiro poco a poco veniva mancandogli.
Alle ore 9,30 del funesto
giorno, tra dolori inenarrabili il povero babbo, vinto e prostrato dal peso di
quella croce che per lunghi anni aveva portato, compiva il suo sacrificio,il
suo olocausto.”
Un terzo raffinato orpello
tracciato al centro della riga seguente
poi le ultime parole, l’estremo omaggio all’amatissimo padre e una
preghiera…
“Tu non sei più babbo
amatissimo, la morte inesorabile ha reciso d’un colpo anche la tua vita, a noi
tanto cara e bisognosa!
La tua santa e nobile vita
fu un epopea di virtù ,di rassegnazione e di fede. Questa fede che tu mi
inculcasti fin da fanciullo nel cuore, mi dice che tu godi in cielo quella
pace, quella felicità che tanto agognasti.
Di lassù, babbo, volgi lo
sguardo ai tuoi figli adorati, rammenta che per essi l’avvenire è oscuro ed
incerto; rischiara ad essi la via che per loro è tracciata, proteggili dai
pericoli, impetra da Dio quella felicità terrena che finora non abbiamo potuto
godere, poiché abbiamo già abbastanza sofferto nel vederci così crudelmente
provati.”
In fondo al foglio la firma
.