Due paesi in
due regioni d’Italia, Paliano
in provincia di Frosinone e
Pagliara dei Marsi paese
montano nei pressi dell’Aquila,
da là comincia la mia
storia.
A frugare più in là
chissà quanti e quali ceppi e
curiosità rintraccerei, ma
preferisco pensare che tutto
sia nato lì.
Due famiglie del tutto
estranee per mentalità e
cultura comunque
ambedue benestanti, l’una di
origine contadina quella dei
Bellizi, in quel di Pagliara,
l’altra, quella dei Tiddi, più
colta e probabilmente di
estrazione borghese , si stabilì
a Paliano.
Tre dei miei nonni non
li ho mai conosciuti, nonno
Raffaele e nonna Aurora per
parte di mamma, nonno Caio
per quella di papà.
I primi due sono avvolti in un
alone di mistero e di
leggenda, morti giovanissimi
sono sempre stati per me dei
mitici ed eroici avi, quasi dei
penati di omerica memoria, (non “penati” nel senso che erano
particolarmente esuberanti sessualmente, questo accadde successivamente
..alla mia nascita) è forse per questo che conservo in studio i
loro ritratti.
Foto d’altri tempi con quel magico colore antico del bianco e
nero di una volta, continuano ancor oggi ad esercitare sulla mia
fantasia
una forte suggestione.
Ben poco si sa di loro.
Nonno Raffaele, figlio di Pietrantonio
Bellizi (3.6.1863) cocchiere di casa Torlonia e Anna Teresa Di
Marzio (20.8.1867),nacque il 23 maggio 1890 gemello di Elvira,
secondo di ben dieci figli.
Sarà senz’altro suggestione ma doveva essere assai simile a me,
un tipo impulsivo e tutta grinta, forse anche un po’ ribelle per quanto
fosse possibile a quei tempi.
Come migliaia di altri giovani italiani ,
spinto dal mito americano, partì giovanissimo per gli Stati uniti.
Diede prova di carattere e di temperamento quando, invaghitosi
di Aurora, la sposò nel 1913 contro il volere dei suoi genitori. Aurora
infatti, figlia di Pietro Michetti e Maria Antonia Lustri,nata il 2
giugno 1890, stesso giorno di mia nipote Valentina,
proveniva da una famiglia di modeste condizioni economiche.
A questo si aggiunga che, secondo il padre ,Raffaele era trop-
po giovane per accasarsi...per queste cose si sa i tempi non cam -
biano mai...a buon intenditor con quel che segue.
Comunque quel capoccione di Raffaele contro tutto e tutti
sposò Aurora e s’incazzò come un toro contro chi aveva avuto l’ar-
dire di tentare di fermarlo.
In fondo quel che accadde a lui allora oggi è successo a qual-
cun altro,anch’egli troppo giovane per sposarsi, Caro nonno tu lo
sai bene chi non risica non rosica, noi “abruzzesi” abbiam la testa
dura come i muli che faticano su per Pianezze.
Di certo i due novelli sposi non ebbero troppo tempo per co-
noscersi ed amarsi, prima l’America poi la guerra li tennero ineso-
rabilmente lontani.
Già, nonno Raffaele fu uno di quei milioni di fanti contadini
che partirono per il fronte allo scoppiare della grande guerra ed af-
frontò quella calamità come fosse la grandine che spazzava via i rac-
colti.Non credo sapesse perchè combattè e morì su quelle montagne,
tornò in Italia dall’America ,dove era andato a lavorare con il fratello
Aristide, e si arruolò perchè minacciarono di togliergli le terre come
renitente alla leva.
Forse se nonno non fosse tornato in Italia per riabbracciare la
sua Aurora lo avrei conosciuto e chissà quali storie fantastiche mi
avrebbe raccontato...è anche vero però che non avrebbe concepito
mamma ed io non sarei mai nato...
Mi piace immaginare il tipico addio dei romanzi
d’appendice,una coppia splendida e innamorata improvvisamente e
ineluttabilmente divisa per sempre.
Doveva avere anche una certa cultura,infatti d’origine contadina
diventò sergente maggiore.
Perse la vita nell’ultimo anno di guerra nel
crollo di una galleria ,sul Carso, dove si era rifugiato con il suo
reparto per sfuggire al fuoco nemico.
Fu probabilmente durante una breve licenza che fu concepita
mia madre,ma non potè mai vederla,non tornò più per stringerla nelle
sue forti braccia.
In quanto a nonna Aurora,donna di alta statura e dotata di quella
tipica bellezza contadina,mi piace immaginarla ,completamente
votata al marito e al focolare domestico,prendersi cura di Maria,la
primogenita e Fernanda. La dura vita di quelle donne non lasciava
certo spazio agli aneliti di rivolta che caratterizzarono più tardi
l’universo femminile.
Mi piace credere che si sia lasciata morire dopo la morte di
Raffaele. Probabilmente fu così che andò,colta dalla polmonite che
spesso all’epoca non lasciava scampo, gli sopravvisse solo pochi
mesi.
Nonno Raffaele era sergente del 13° Fanteria, 6a
Compagnia,11° squadrone nella batteria della 14a Divisione dei
reparti speciali in zona di guerra,come si legge in una vecchia e
consunta cartolina postale inviata al prete di Pagliara Don Urbano
Urbani.
Di seguito tento di “tradurre” la missiva : la carta ingiallita non
aiuta a leggere correttamente e la particolare calligrafia del tempo è
spesso illegibile per chi come noi è abituato ai caratteri freddi e
inespressivi di computer e macchine da scrivere.
L’ortografia non proprio esatta,per usare un’eufemismo,
completa il quadro di una difficile interpretazione del testo.
3/6/1916
“Zi prete carissimo,
Sono ricevuto la tua cartolina e ti risposi presto.L’ai richiesta?
credo di si. Io sino adesso mitrovo bene,come spero di te. Zi prete sai
che quel povero Virgilio è stato ferito leggermente, si diceva che la
cavalleria non combatteva e invece quì le anno tutti le batostole(?).
Speriamo che le preghiere che tu fai per noi combattenti
saranno esaudite ma saprò bene ricompensarti.
Salutami e baciami il caro Italino e un bacetto a Elenina(?)
Così ti bacio di vero cuore ti chiedo la tua benedizione e con
rispetto mi firmo tuo devotissimo Raffaele. Ti salutano i miei
commilitoni”
Mamma non conobbe il padre e ricorda poco o niente della
mamma persa a diciassette mesi. Fu cresciuta da alcune zie e dai
nonni,Teresina e Pietrantonio, genitori di Raffaele.
Lo stesso destino di Aurora che rimase orfana della madre,Maria
Antonia,il giorno in cui venne alla luce, il parto fu infatti fatale,come
spesso accadeva allora,sia per la mamma che per la sorella gemella
Angelina.
La casa paterna di nonno Raffaele era situata nella piazza
centrale di Pagliara accanto al Palazzo di Bellizi Domenico, edificio
storico del paese demolito negli anni cinquanta perchè pericolante.
Era una ricca famiglia di commercianti quella dei Bellizi che
effettuava i suoi commerci tra l’Abruzzo il Lazio e la Campania e
proprio in quest’ultima regione ebbe origine l’altro ramo della mia
stirpe quella dei Tiddi.
Sfogliando le pagine di un libro commissionato da papà
all’ufficio ricerche storiche araldiche ho potuto apprendere che i
Tiddi ebbero il loro capostipite nella nota e potente Casata dei
Malatesta di Rimini,un certo Tito dei Malatesta.
Comunque andò è
però certo che dal ceppo due rami si dipartirono. Intorno alla fine del
600, uno si stabilì in Toscana presso Firenze,l’altro quello che ci
riguarda più da vicino, agli albori del cinquecento in Campania e
precisamente in Napoli.
Nel 1533 un Antonio fece parte del Consiglio della Vicaria
carica.
Le fortune della casata furono alterne, comunque i membri
della stirpe furono sempre elementi di primo piano nella nobiltà del
tempo.
Più tardi,verso la fine del ‘600 , la famiglia si trasferì in zone
più prossime al Lazio,presumibilmente in Paliano, dove ebbero stanza
i diretti progenitori dell’attuale ramo vivente in Roma.
Mariano fu investito nel 1591 del titolo baronale sul tenimento
feudale di Torrearsa.
Alfonso fu una sorta di sindacalista ante litteram in quanto fece
parte del 1532 di una commissione inviata alla Regia Corte per
protestare contro l’aggravio dei fuochi e ottenere privilegi a favore
dei mercanti.
Pier Camillo, uomo dotto, fu un prelato,canonico maggiore in
Santa Maria del Suffragio in Capua e Vicario del Vescovo nel 1636.
Nicolò nell’armata Cristiana,al comando di Don Giovanni
d’Austria,partecipò alla memorabile battaglia di Lepanto contro i
Turchi,correva l’anno 1571.
Giovanni fu Castellano delle fortezze di Capua e provveditore a
guerra di quei soldati nel secolo XVI°.
Ancora un Mariano luogotenente di Don Andrea Caracciolo
gran giustiziere del regno,praticamente un boia, perì in una rivolta
popolare contro la gabella del 1587.
Ludovico fu notaio in Napoli verso la metà del 500 e
probabilmente fu lui il progenitore della mia discendenza che ebbe
residenza in Paliano,trasferendosi più tardi in Benevento,capeggiata
da nonno Caio.
Caio Tiddi ,figlio di Pietro,nato a Paliano il 6 gennaio 1893,
sposato con Anna Maria Lucchini , generò : Piero,William,Maria
Romana,Adriana,Maria Rosaria,Adriana,Sergio e Walter nato a
Benevento il 20 dicembre 1922,sposato con Fernanda Bellizi fu
Raffaele da cui : Piero,Paolo,Maria Aurora e Marco il genio del
lignaggio nato a Roma il 5/4/1957 che impalmò il 24 aprile 1982
Letizia Maria Liotta , che, debitamente imbertucciata da quel sommo
amatore, partorì Alessandro,Roberto e Gabriele.
Ma quì si corre troppo !
Retromarcia e torniamo al 1893.
Nonno Caio nacque il 6 gennaio di quell’anno da Pietro Tiddi e
Adele Spera in Paliano, dove si era trasferita la famiglia d’origine
dopo aver soggiornato a Napoli. Sempre nella stessa cittadina della
Ciociaria incastonata tra i Monti Prenestini e quelli Etnici vennero al
mondo gli altri due fratelli,Felicia e Tito.
Il padre Pietro sembra esercitasse la professione di esattore
comunale.
Caio studiò presso un istituto tecnico di Roma dove
ottenne in data 3 luglio 1916 il diploma di perito commerciale e
ragioniere.
Negli anni venti dopo aver sposato Anna Maria Lucchini si
trasferì in Benevento,nel 1923 divenne direttore del Credito Popolare
Meridionale e venne iscritto su proposta del Ministro per l’industria e
per il commercio, nel ruolo dei Cavalieri Nazionali.
Mi raccontava papà che il padre era un gran brav’uomo ,
provava per mamma un grande affetto considerandola la migliore
delle nuore. Fernanda ricambiò il suo amore con rispetto e
riconoscenza ,fu proprio lei infatti a rimanergli accanto quando il 7
giugno del 1955 spirò .
Mia nonna,l’unica che ho conosciuto,veniva chiamata da tutti
noi Nannina ,in realtà il suo nome, come rivela un certificato di
battesimo riesumato nelle antiche e macere carte raccolte in un
faldone nello studio di papà, era Anna,Ursula, Gabriella,Roberta.
Nata il 18 marzo 1896 da Umberto Lucchini e Romanina Ricci
ebbe certamente un’agiata fanciullezza insieme al fratello Raffaele cui
era molto legata e che sposò Maria, sorella di nonno Caio.
Era una donna particolare,terrorizzata all’idea di restar senza
denaro. Al contrario del marito non sembra avesse un buon rapporto
con mia madre, particolarmente indicativa è la lettera che zio William
scrisse a papà,probabilmente fuori per studio,il 21 agosto 1948,nella
quale a proposito dell’incontro tra le due donne scrive:
“Ella
(Fernanda) si è veramente convinta che non c’è niente da fare.”
Sicuramente pesò sulla fragile personalità di Anna Maria la
tragedia del figlio Piero,perso all’alba del suo 19° anno,nella guerra
d’Albania,ma a questo arriveremo tra breve.
Nonna lavorò dal 15 novembre del 1915 al 22 febbraio del 1919
presso l’ufficio contabilità della Banca Commerciale Italiana, in
seguito collaborò nel 1934-35 ,nella rubrica enigmistica ,alla
redazione dell’Osservatore della Domenica.
Ricordo una vecchina,chiusa nella tetra solitudine di un’antica e
immensa villa di campagna nei pressi di Grottaferrata,persa nelle
confuse e ovattate memorie di un tempo lontano e favoloso..Sembrava
rifugiarsi in un mondo tutto suo ,popolato di gente dell’alta società
borghese del tempo passato,un mondo in bianco e nero
decadente,d’annunziano.
Forse quel suo aspetto trasandato,arruffato,quell’atteggiamento
austero,quel fare confusionario e demodè era solo frutto degli ormai
tristi ma sempre affascinanti ricordi della scintillante vita che
conduceva negli anni giovanili.
Nonno Caio fu infatti un pezzo da novanta nel panorama
economico della borghesia del tempo,uno che contava, forte di quella
personalità singolare e volitiva ,che avrebbe tramandato a papà,
aveva, come sarebbe poi capitato a tutta la sua discendenza di sesso
maschile, un solo padrone: la moglie.
Trasferitosi da Benevento a Roma, nella casa di via Pompeo
Magno 2, fondò nel 1932 e diresse fino alla sua morte, la
Sportass,poi, nominato capo degli uffici amministrativi del C.O.N.I.,
intraprese una rapida carriera. Nominato Cavaliere dell’Ordine dei
S.S.. Maurizio e Lazzaro da S.M. Vittorio Emanuele III°(1939),Il
Duce stesso gli conferì la stella al merito sportivo(1941),infine fu
munito dell’alta onorificenza di Ufficiale della Corona d’Italia (1941).
Quale fu il suo atteggiamento politico con il regime dell’epoca
non è dato sapere, certamente non ne fu oppositore ma neanche
strenuo difensore.
Dal matrimonio di Caio e Anna Maria vennero al mondo sette
fratelli. Di questi due, Adriana e Sergio, perirono alla nascita.
Un capitolo a parte merita la figura eroica di zio Piero morto a
diciott’anni sul fronte greco albanese nel gennaio del 1941.
Fra ritagli di giornale e consunti documenti militari scovati tra le
carte conservate da una madre per serbare il caro ricordo di un figlio
ucciso dalla guerra,ho cercato di ricostruire la breve ed intrepida
esistenza di questo ragazzo sciagurato figlio di quell’epoca
crepuscolare e cruenta.
Per ovvie ragioni mi limiterò a raccontare per sommi capi la sua
storia, chi avrà tempo evoglia potrà sfogliare il mio lavoro a lui
dedicato,”Da zio Piero alla Luna fermata Tepeleni”,nel quale ,oltre ad
inquadrare il periodo storico degli avvenimenti narrati, ho raccolto le
lettere dal fronte di Piero alla famiglia e alla sua Bianca e le missive dei suoi cari.
Fece parte, come Walter e William, prima come Balilla poi
come Giovane Fascista della legione marinara “Caio Duilio” negli
anni che vanno dal 1930 al 1938.
Nel marzo del 1939, a soli diciassette anni, si arruolò volontario
e partecipò ad un corso di allievi sott’ufficiali cinematografisti presso
la scuola di Bolzano,nello stesso anno conseguì la nomina a sergente.
Nel maggio del 1940 a sua domanda fu inviato in Albania.
Dichiarata la guerra chiese ripetutamente di essere inviato sul
fronte occidentale e successivamente in Africa settentrionale. Non
essendo stato accontentato interessò vivamente i suoi superiori
perchè,nell’eventualità,fosse aggregato ai primi reparti di truppa che
dall’Albania potessero essere inviati in zona di guerra.
Verso la metà del 1940 fu richiamato in servizio al reparto
fotografico del Comando,ma rifiutò di recarvicisi in quanto le truppe
erano già in movimento verso la frontiera greco albanese. Aggregato
alla colonna “Solinas” fece parte dei primi reparti di bersaglieri che
attraversarono la frontiera.
Il 19 febbraio 1940 a Rataplana-Ponticates fu decorato di
medaglia d’argento sul campo con la motivazione che segue
“Sott’ufficiale pieno di entusiasmo e di grande
ardimento,durante un aspro combattimento,accortosi che un ufficiale
della propria Compagnia,ferito gravemente, era stato preso dal
nemico,si lanciava per riprenderlo e, dopo un’epica lotta corpo a
corpo riusciva a riportarlo nelle nostre linee. Si distinse più tardi in
successivi combattimenti per bravura ed ardimento.
Esempio mirabile di attaccamento al dovere,di devozione al
superiore e di sprezzo del pericolo”
-Zaraplana-Ponticantes 19 novembre 1940 XIX° -
Il Colonnello Solinas, che lo ebbe successivamente geniere fra i
bersaglieri,combattente di prima linea alle sue dipendenze, si esprime
sul suo comportamento in una lettera inviata all’ammiraglio Riccardi
in data 19/7/1941 ricordandone l’indomita figura di soldato.
“...Ricordo perfettamente, e con vivissima affettuosa
simpatia,la bella figura del Tiddi che era ai miei ordini - quasi
sempre al mio fianco - durante le operazioni della “Colonna
Solinas” operante in Val Vojssa prima e poi in
Zaraplana-Ponticates-Valle Drino.
Pur appartenendo a reparto di altra arma lo consideravamo un
bersagliere del V° ed Egli - fierissimo di ciò- durante la sua
permanenza al Reggimento vestì da Bersagliere-con un elmetto
piumato- combattè da Bersagliere fra i Bersaglieri,e certamente
cadde da Bersagliere sfidando - come sempre - ogni offesa nemica.
Il Suo slancio,il Suo entusiasmo,il Suo coraggio,erano devenuti
addirittura leggendari nella Colonna,tanto che, per frenare un po’
l’impulso troppo generoso del suo animo eroico,ritenni opportuno ad
un dato momento di tenerlo vicino a me,al comando della
Colonna,per incarichi di fiducia.
Il 4 gennaio,però,egli dovette lasciare il reggimento perchè
richiamato al proprio reparto ( 3a Compagnia Artieri del 26°
Raggruppamento Genio)che si trovava allora sulla strada
Berat-Klisura e precisamente a 5 Km. da Klisura.
Molto a malincuore lo vidi partire dal mio Comando - sempre
con l’elmetto piumato in testa - e lo abbracciai commosso ,
ringraziandolo di quanto aveva fatto. “Ma io ritornerò sig.
Colonnello,ritornerò a combattere col 5° appena incominceranno
le operazioni,voglio tornare coi Bersaglieri!”.......sono le ultime
parole con le quali Egli si accomiatò da me...”
Il 4 gennaio 1941 fu richiamato infatti al suo reparto del Genio
ma lasciò molto a malincuore i bersaglieri.
L’8 gennaio 1941 a Klisura nell’azione di Kilismono cadeva
mortalmente ferito alla testa e all’addome e il giorno successivo
devedeva all’ospedale da campo.
Il comando del Reggimento proponeva la concessione di
medaglia d’oro alla memoria,proposta confermata dal secondo parere
gerarchico; il Comando Superiore delle forze dislocate in Grecia
declassò invece la proposta trasmettendola al Ministero come
proposta di medaglia d’argento e come tale nel gennaio 1943 fu
confermata dalla Commissione per le ricompense militari con la
seguente motivazione:
“Sott’ufficiale del genio,partecipava con i bersaglieri a vari
combattimenti distinguendosi per ardimento e sprezzo del pericolo.
In
fase di ripiegamento,mentre si prodigava per mettere in salvo
importanti materiali di un magazzino avanzato,veniva assalito da
forze superiori. Benchè ferito gravemente,continuava l’impari lotta
con bombe a mano,riuscendo a porre in fuga l’avversario.
Spirava
poco dopo all’ospedale “Klisura” (Fronte greco 9 gennaio 1941).
Occorre tener presente che zio Piero aveva un’accentuata miopia
e durante le operazioni restò privo di lenti ma non accusò mai
l’evidente menomazione che questo fatto gli procurava,nel timore di
essere rinviato nelle retrovie,almento temporaneamente, per
provvedersi di nuovi occhiali.
Cosa mai occorrese per meritare una
medaglia d’oro resta nelle teste vuote dei componenti quell’ “alto”
comando.
Lungo e penoso fu il tentativo dei familiari per far sì che la
medaglia d’argento fosse riportata all’originaria proposta di medaglia
d’oro fatta dal Corpo proponente,ma fu tutto vano.
L’unica eredità lasciatami da nonno Caio e zio Piero fu la forte
miopia che dall’età di due anni mi è fedele,ma poco cara,compagna
ma questa è un’altra storia.
Il 20 dicembre 1922 nascono due gemelli: William e Walter.
Nato nell’anno della marcia su Roma è già un miracolo che
Walter non fosse stato chiamato Benito o Italo, ma certo fu educato
nel culto della figura del Cavalier Mussolini.
Considerato che Fernanda nasceva cinque anni prima, allo
scoppiar della rivoluzione bolscevica, incuriosisce riflettere su come
una coppia nata sotto così diversi auspici avrebbe mai potuto andare
d’accordo.
Piuttosto tirchietto,secchione e facilmente impressionabile
Walter ebbe però rispetto ai suoi fratelli la volitività e l’intelligenza
che lo avrebbe portato qualche anno più tardi alla laurea in
Giurisprudenza.
Visse i primi anni a Benevento e solo nel 1929 la famiglia si
trasferì a Roma nella signorile casa di via Pompeo Magno 2.
I gemelli Tiddi,l’uno portato per le materie umanistiche,l’altro
per quelle scentifiche, si somigliavano come due gocce d’acqua .
Raccontava papà che un giorno riuscirono persino a ingannare i
professori scambiandosi le parti per gli esami di latino e matematica.
Non so se sia veramente accaduto ma mi piace crederlo.
Un bel giorno,almeno per me che altrimenti non sarei mai
venuto al mondo,Walter incontrò una ragazza graziosa,se ne innamorò
e cominciò a farle una serrata corte.
Fernanda era andata via dal paesino d’Abruzzo dove era nata e
cresciuta,per cercar miglior fortuna a Roma.
Orfana tra orfani dopo
aver lavorato presso un istituto di bambini appena più piccoli di
lei,aveva trovato lavoro presso un istituto religioso il San Michele. Lì
mentre le suore si occupavano dei bambini in età scolare,alcuni
giovanotti facevano gli istitutori ai più grandicelli,uno di questi era
papà.
Chi si occupava di servire a tavola questi precettori era proprio
mamma ; a quel che mi raccontò papà fu un vero colpo di fulmine.
Il baldo genitore in fatto di donne all’epoca era un vero disastro
e tramandò questa eredità al figlio minore.
Non sapendo come
comportarsi per rompere il ghiaccio e attaccare bottone riuscì soltanto
a scrivere un bigliettino d’amore e a nasconderlo nel cestino del pane.
Quando Fernanda sparecchiò la tavola trovò la missiva e lesse le
parole d’amore che quel giovane di buona famiglia le aveva dedicato.
Arrossì ma non volle farsi illusioni,era diffidente verso quel
signorino troppo al di sopra della sua condizione sociale. Nei giorni
seguenti evitò persino d’incrociare lo sguardo con Walter.
Le avanches del Tiddo cominciarono a farsi più insistenti e la
ragazza cominciò a cedere pian piano al fascino di quello che sarebbe
stato il padre di cotanto latin lover. Non aveva scampo, lo sapeva, ne
parlò con Suor Teresa che le consigliò di provare.
Era perduta!
Mamma mentì spudoratamente alla madre superiora dell’istituto
e ,con la scusa di andare a trovare la sorella Maria, che allora abitava
a Tivoli, andò all’appuntamento che lo sciupafemmine del quartiere
Prati le aveva dato in un parco nelle vicinanze del San Michele.
Il povero papà beccò una sonora buca, ma testardo come un
mulo,continuò a frequentarla per diverso tempo, finchè durante una
lunga passeggiata ,all’ombra del Colosseo, la pulzella capitolò.
Un forte grido, “Hurrà!” ,venne giù dal cielo: eravano noi,futura
prole, che scalpitavamo nell’impazienza di venire al mondo.
Dopo quel fatidico e insperato “sì” Walter tornò a Milano dove
aveva trovato un posto di lavoro presso le assicurazioni
Generali,mamma,operata d’urgenza d’appendicite ,andò a trascorrere
la convalescenza da zia Maria e zio Gino a Tivoli.
Papà smanioso e inquieto voleva andar via di casa, volle andare
a conoscere i parenti più cari di Fernanda ,questi ricambiarono quella
curiosa insistenza con uno di quei pranzi tipicamente abbruzzesi
abbondanti e genuini innaffiati da buon vino e cortesia.
Quel tipetto mingherlino tutto nervi e carattere piacque
moltissimo ai due che diedero la loro benedizione a fernandella .
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