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DIARIO

le origini

Due paesi in due regioni d’Italia, Paliano in provincia di Frosinone e Pagliara dei Marsi paese montano nei pressi dell’Aquila, da là comincia la mia storia. A frugare più in là chissà quanti e quali ceppi e curiosità rintraccerei, ma preferisco pensare che tutto sia nato lì.
Due famiglie del tutto estranee per mentalità e cultura comunque ambedue benestanti, l’una di origine contadina quella dei Bellizi, in quel di Pagliara, l’altra, quella dei Tiddi, più colta e probabilmente di estrazione borghese , si stabilì a Paliano.
Tre dei miei nonni non li ho mai conosciuti, nonno Raffaele e nonna Aurora per parte di mamma, nonno Caio per quella di papà.
I primi due sono avvolti in un alone di mistero e di leggenda, morti giovanissimi sono sempre stati per me dei mitici ed eroici avi, quasi dei penati di omerica memoria, (non “penati” nel senso che erano particolarmente esuberanti sessualmente, questo accadde successivamente ..alla mia nascita) è forse per questo che conservo in studio i loro ritratti.
Foto d’altri tempi con quel magico colore antico del bianco e nero di una volta, continuano ancor oggi ad esercitare sulla mia fantasia una forte suggestione.
Ben poco si sa di loro.
Nonno Raffaele, figlio di Pietrantonio Bellizi (3.6.1863) cocchiere di casa Torlonia e Anna Teresa Di Marzio (20.8.1867),nacque il 23 maggio 1890 gemello di Elvira, secondo di ben dieci figli.
Sarà senz’altro suggestione ma doveva essere assai simile a me, un tipo impulsivo e tutta grinta, forse anche un po’ ribelle per quanto fosse possibile a quei tempi.
Come migliaia di altri giovani italiani , spinto dal mito americano, partì giovanissimo per gli Stati uniti. Diede prova di carattere e di temperamento quando, invaghitosi di Aurora, la sposò nel 1913 contro il volere dei suoi genitori. Aurora infatti, figlia di Pietro Michetti e Maria Antonia Lustri,nata il 2 giugno 1890, stesso giorno di mia nipote Valentina, proveniva da una famiglia di modeste condizioni economiche. A questo si aggiunga che, secondo il padre ,Raffaele era trop- po giovane per accasarsi...per queste cose si sa i tempi non cam - biano mai...a buon intenditor con quel che segue.
Comunque quel capoccione di Raffaele contro tutto e tutti sposò Aurora e s’incazzò come un toro contro chi aveva avuto l’ar- dire di tentare di fermarlo.
In fondo quel che accadde a lui allora oggi è successo a qual- cun altro,anch’egli troppo giovane per sposarsi, Caro nonno tu lo sai bene chi non risica non rosica, noi “abruzzesi” abbiam la testa dura come i muli che faticano su per Pianezze.
Di certo i due novelli sposi non ebbero troppo tempo per co- noscersi ed amarsi, prima l’America poi la guerra li tennero ineso- rabilmente lontani.
Già, nonno Raffaele fu uno di quei milioni di fanti contadini che partirono per il fronte allo scoppiare della grande guerra ed af- frontò quella calamità come fosse la grandine che spazzava via i rac- colti.Non credo sapesse perchè combattè e morì su quelle montagne, tornò in Italia dall’America ,dove era andato a lavorare con il fratello Aristide, e si arruolò perchè minacciarono di togliergli le terre come renitente alla leva.
Forse se nonno non fosse tornato in Italia per riabbracciare la sua Aurora lo avrei conosciuto e chissà quali storie fantastiche mi avrebbe raccontato...è anche vero però che non avrebbe concepito mamma ed io non sarei mai nato...
Mi piace immaginare il tipico addio dei romanzi d’appendice,una coppia splendida e innamorata improvvisamente e ineluttabilmente divisa per sempre.
Doveva avere anche una certa cultura,infatti d’origine contadina diventò sergente maggiore.
Perse la vita nell’ultimo anno di guerra nel crollo di una galleria ,sul Carso, dove si era rifugiato con il suo reparto per sfuggire al fuoco nemico.
Fu probabilmente durante una breve licenza che fu concepita mia madre,ma non potè mai vederla,non tornò più per stringerla nelle sue forti braccia.
In quanto a nonna Aurora,donna di alta statura e dotata di quella tipica bellezza contadina,mi piace immaginarla ,completamente votata al marito e al focolare domestico,prendersi cura di Maria,la primogenita e Fernanda. La dura vita di quelle donne non lasciava certo spazio agli aneliti di rivolta che caratterizzarono più tardi l’universo femminile.
Mi piace credere che si sia lasciata morire dopo la morte di Raffaele. Probabilmente fu così che andò,colta dalla polmonite che spesso all’epoca non lasciava scampo, gli sopravvisse solo pochi mesi.
Nonno Raffaele era sergente del 13° Fanteria, 6a Compagnia,11° squadrone nella batteria della 14a Divisione dei reparti speciali in zona di guerra,come si legge in una vecchia e consunta cartolina postale inviata al prete di Pagliara Don Urbano Urbani.
Di seguito tento di “tradurre” la missiva : la carta ingiallita non aiuta a leggere correttamente e la particolare calligrafia del tempo è spesso illegibile per chi come noi è abituato ai caratteri freddi e inespressivi di computer e macchine da scrivere.
L’ortografia non proprio esatta,per usare un’eufemismo, completa il quadro di una difficile interpretazione del testo.
3/6/1916 “Zi prete carissimo, Sono ricevuto la tua cartolina e ti risposi presto.L’ai richiesta? credo di si. Io sino adesso mitrovo bene,come spero di te. Zi prete sai che quel povero Virgilio è stato ferito leggermente, si diceva che la cavalleria non combatteva e invece quì le anno tutti le batostole(?). Speriamo che le preghiere che tu fai per noi combattenti saranno esaudite ma saprò bene ricompensarti. Salutami e baciami il caro Italino e un bacetto a Elenina(?) Così ti bacio di vero cuore ti chiedo la tua benedizione e con rispetto mi firmo tuo devotissimo Raffaele. Ti salutano i miei commilitoni”
Mamma non conobbe il padre e ricorda poco o niente della mamma persa a diciassette mesi. Fu cresciuta da alcune zie e dai nonni,Teresina e Pietrantonio, genitori di Raffaele.
Lo stesso destino di Aurora che rimase orfana della madre,Maria Antonia,il giorno in cui venne alla luce, il parto fu infatti fatale,come spesso accadeva allora,sia per la mamma che per la sorella gemella Angelina.
La casa paterna di nonno Raffaele era situata nella piazza centrale di Pagliara accanto al Palazzo di Bellizi Domenico, edificio storico del paese demolito negli anni cinquanta perchè pericolante.
Era una ricca famiglia di commercianti quella dei Bellizi che effettuava i suoi commerci tra l’Abruzzo il Lazio e la Campania e proprio in quest’ultima regione ebbe origine l’altro ramo della mia stirpe quella dei Tiddi.

Sfogliando le pagine di un libro commissionato da papà all’ufficio ricerche storiche araldiche ho potuto apprendere che i Tiddi ebbero il loro capostipite nella nota e potente Casata dei Malatesta di Rimini,un certo Tito dei Malatesta.
Comunque andò è però certo che dal ceppo due rami si dipartirono. Intorno alla fine del 600, uno si stabilì in Toscana presso Firenze,l’altro quello che ci riguarda più da vicino, agli albori del cinquecento in Campania e precisamente in Napoli.
Nel 1533 un Antonio fece parte del Consiglio della Vicaria carica.
Le fortune della casata furono alterne, comunque i membri della stirpe furono sempre elementi di primo piano nella nobiltà del tempo.
Più tardi,verso la fine del ‘600 , la famiglia si trasferì in zone più prossime al Lazio,presumibilmente in Paliano, dove ebbero stanza i diretti progenitori dell’attuale ramo vivente in Roma.
Mariano fu investito nel 1591 del titolo baronale sul tenimento feudale di Torrearsa.
Alfonso fu una sorta di sindacalista ante litteram in quanto fece parte del 1532 di una commissione inviata alla Regia Corte per protestare contro l’aggravio dei fuochi e ottenere privilegi a favore dei mercanti.
Pier Camillo, uomo dotto, fu un prelato,canonico maggiore in Santa Maria del Suffragio in Capua e Vicario del Vescovo nel 1636. Nicolò nell’armata Cristiana,al comando di Don Giovanni d’Austria,partecipò alla memorabile battaglia di Lepanto contro i Turchi,correva l’anno 1571.
Giovanni fu Castellano delle fortezze di Capua e provveditore a guerra di quei soldati nel secolo XVI°.
Ancora un Mariano luogotenente di Don Andrea Caracciolo gran giustiziere del regno,praticamente un boia, perì in una rivolta popolare contro la gabella del 1587.
Ludovico fu notaio in Napoli verso la metà del 500 e probabilmente fu lui il progenitore della mia discendenza che ebbe residenza in Paliano,trasferendosi più tardi in Benevento,capeggiata da nonno Caio.
Caio Tiddi ,figlio di Pietro,nato a Paliano il 6 gennaio 1893, sposato con Anna Maria Lucchini , generò : Piero,William,Maria Romana,Adriana,Maria Rosaria,Adriana,Sergio e Walter nato a Benevento il 20 dicembre 1922,sposato con Fernanda Bellizi fu Raffaele da cui : Piero,Paolo,Maria Aurora e Marco il genio del lignaggio nato a Roma il 5/4/1957 che impalmò il 24 aprile 1982 Letizia Maria Liotta , che, debitamente imbertucciata da quel sommo amatore, partorì Alessandro,Roberto e Gabriele.

Ma quì si corre troppo !
Retromarcia e torniamo al 1893.
Nonno Caio nacque il 6 gennaio di quell’anno da Pietro Tiddi e Adele Spera in Paliano, dove si era trasferita la famiglia d’origine dopo aver soggiornato a Napoli. Sempre nella stessa cittadina della Ciociaria incastonata tra i Monti Prenestini e quelli Etnici vennero al mondo gli altri due fratelli,Felicia e Tito.
Il padre Pietro sembra esercitasse la professione di esattore comunale.
Caio studiò presso un istituto tecnico di Roma dove ottenne in data 3 luglio 1916 il diploma di perito commerciale e ragioniere.
Negli anni venti dopo aver sposato Anna Maria Lucchini si trasferì in Benevento,nel 1923 divenne direttore del Credito Popolare Meridionale e venne iscritto su proposta del Ministro per l’industria e per il commercio, nel ruolo dei Cavalieri Nazionali.
Mi raccontava papà che il padre era un gran brav’uomo , provava per mamma un grande affetto considerandola la migliore delle nuore. Fernanda ricambiò il suo amore con rispetto e riconoscenza ,fu proprio lei infatti a rimanergli accanto quando il 7 giugno del 1955 spirò .
Mia nonna,l’unica che ho conosciuto,veniva chiamata da tutti noi Nannina ,in realtà il suo nome, come rivela un certificato di battesimo riesumato nelle antiche e macere carte raccolte in un faldone nello studio di papà, era Anna,Ursula, Gabriella,Roberta.
Nata il 18 marzo 1896 da Umberto Lucchini e Romanina Ricci ebbe certamente un’agiata fanciullezza insieme al fratello Raffaele cui era molto legata e che sposò Maria, sorella di nonno Caio.
Era una donna particolare,terrorizzata all’idea di restar senza denaro. Al contrario del marito non sembra avesse un buon rapporto con mia madre, particolarmente indicativa è la lettera che zio William scrisse a papà,probabilmente fuori per studio,il 21 agosto 1948,nella quale a proposito dell’incontro tra le due donne scrive:
“Ella (Fernanda) si è veramente convinta che non c’è niente da fare.” Sicuramente pesò sulla fragile personalità di Anna Maria la tragedia del figlio Piero,perso all’alba del suo 19° anno,nella guerra d’Albania,ma a questo arriveremo tra breve.
Nonna lavorò dal 15 novembre del 1915 al 22 febbraio del 1919 presso l’ufficio contabilità della Banca Commerciale Italiana, in seguito collaborò nel 1934-35 ,nella rubrica enigmistica ,alla redazione dell’Osservatore della Domenica.
Ricordo una vecchina,chiusa nella tetra solitudine di un’antica e immensa villa di campagna nei pressi di Grottaferrata,persa nelle confuse e ovattate memorie di un tempo lontano e favoloso..Sembrava rifugiarsi in un mondo tutto suo ,popolato di gente dell’alta società borghese del tempo passato,un mondo in bianco e nero decadente,d’annunziano.
Forse quel suo aspetto trasandato,arruffato,quell’atteggiamento austero,quel fare confusionario e demodè era solo frutto degli ormai tristi ma sempre affascinanti ricordi della scintillante vita che conduceva negli anni giovanili.
Nonno Caio fu infatti un pezzo da novanta nel panorama economico della borghesia del tempo,uno che contava, forte di quella personalità singolare e volitiva ,che avrebbe tramandato a papà, aveva, come sarebbe poi capitato a tutta la sua discendenza di sesso maschile, un solo padrone: la moglie.
Trasferitosi da Benevento a Roma, nella casa di via Pompeo Magno 2, fondò nel 1932 e diresse fino alla sua morte, la Sportass,poi, nominato capo degli uffici amministrativi del C.O.N.I., intraprese una rapida carriera. Nominato Cavaliere dell’Ordine dei S.S.. Maurizio e Lazzaro da S.M. Vittorio Emanuele III°(1939),Il Duce stesso gli conferì la stella al merito sportivo(1941),infine fu munito dell’alta onorificenza di Ufficiale della Corona d’Italia (1941). Quale fu il suo atteggiamento politico con il regime dell’epoca non è dato sapere, certamente non ne fu oppositore ma neanche strenuo difensore.
Dal matrimonio di Caio e Anna Maria vennero al mondo sette fratelli. Di questi due, Adriana e Sergio, perirono alla nascita.

Un capitolo a parte merita la figura eroica di zio Piero morto a diciott’anni sul fronte greco albanese nel gennaio del 1941.
Fra ritagli di giornale e consunti documenti militari scovati tra le carte conservate da una madre per serbare il caro ricordo di un figlio ucciso dalla guerra,ho cercato di ricostruire la breve ed intrepida esistenza di questo ragazzo sciagurato figlio di quell’epoca crepuscolare e cruenta.
Per ovvie ragioni mi limiterò a raccontare per sommi capi la sua storia, chi avrà tempo evoglia potrà sfogliare il mio lavoro a lui dedicato,”Da zio Piero alla Luna fermata Tepeleni”,nel quale ,oltre ad inquadrare il periodo storico degli avvenimenti narrati, ho raccolto le lettere dal fronte di Piero alla famiglia e alla sua Bianca e le missive dei suoi cari.
Fece parte, come Walter e William, prima come Balilla poi come Giovane Fascista della legione marinara “Caio Duilio” negli anni che vanno dal 1930 al 1938.
Nel marzo del 1939, a soli diciassette anni, si arruolò volontario e partecipò ad un corso di allievi sott’ufficiali cinematografisti presso la scuola di Bolzano,nello stesso anno conseguì la nomina a sergente.
Nel maggio del 1940 a sua domanda fu inviato in Albania.
Dichiarata la guerra chiese ripetutamente di essere inviato sul fronte occidentale e successivamente in Africa settentrionale. Non essendo stato accontentato interessò vivamente i suoi superiori perchè,nell’eventualità,fosse aggregato ai primi reparti di truppa che dall’Albania potessero essere inviati in zona di guerra.
Verso la metà del 1940 fu richiamato in servizio al reparto fotografico del Comando,ma rifiutò di recarvicisi in quanto le truppe erano già in movimento verso la frontiera greco albanese. Aggregato alla colonna “Solinas” fece parte dei primi reparti di bersaglieri che attraversarono la frontiera.
Il 19 febbraio 1940 a Rataplana-Ponticates fu decorato di medaglia d’argento sul campo con la motivazione che segue

“Sott’ufficiale pieno di entusiasmo e di grande ardimento,durante un aspro combattimento,accortosi che un ufficiale della propria Compagnia,ferito gravemente, era stato preso dal nemico,si lanciava per riprenderlo e, dopo un’epica lotta corpo a corpo riusciva a riportarlo nelle nostre linee. Si distinse più tardi in successivi combattimenti per bravura ed ardimento.
Esempio mirabile di attaccamento al dovere,di devozione al superiore e di sprezzo del pericolo”
-Zaraplana-Ponticantes 19 novembre 1940 XIX° -

Il Colonnello Solinas, che lo ebbe successivamente geniere fra i bersaglieri,combattente di prima linea alle sue dipendenze, si esprime sul suo comportamento in una lettera inviata all’ammiraglio Riccardi in data 19/7/1941 ricordandone l’indomita figura di soldato.

“...Ricordo perfettamente, e con vivissima affettuosa simpatia,la bella figura del Tiddi che era ai miei ordini - quasi sempre al mio fianco - durante le operazioni della “Colonna Solinas” operante in Val Vojssa prima e poi in Zaraplana-Ponticates-Valle Drino.
Pur appartenendo a reparto di altra arma lo consideravamo un bersagliere del V° ed Egli - fierissimo di ciò- durante la sua permanenza al Reggimento vestì da Bersagliere-con un elmetto piumato- combattè da Bersagliere fra i Bersaglieri,e certamente cadde da Bersagliere sfidando - come sempre - ogni offesa nemica. Il Suo slancio,il Suo entusiasmo,il Suo coraggio,erano devenuti addirittura leggendari nella Colonna,tanto che, per frenare un po’ l’impulso troppo generoso del suo animo eroico,ritenni opportuno ad un dato momento di tenerlo vicino a me,al comando della Colonna,per incarichi di fiducia.
Il 4 gennaio,però,egli dovette lasciare il reggimento perchè richiamato al proprio reparto ( 3a Compagnia Artieri del 26° Raggruppamento Genio)che si trovava allora sulla strada Berat-Klisura e precisamente a 5 Km. da Klisura.
Molto a malincuore lo vidi partire dal mio Comando - sempre con l’elmetto piumato in testa - e lo abbracciai commosso , ringraziandolo di quanto aveva fatto. “Ma io ritornerò sig. Colonnello,ritornerò a combattere col 5° appena incominceranno le operazioni,voglio tornare coi Bersaglieri!”.......sono le ultime parole con le quali Egli si accomiatò da me...”
Il 4 gennaio 1941 fu richiamato infatti al suo reparto del Genio ma lasciò molto a malincuore i bersaglieri.
L’8 gennaio 1941 a Klisura nell’azione di Kilismono cadeva mortalmente ferito alla testa e all’addome e il giorno successivo devedeva all’ospedale da campo.
Il comando del Reggimento proponeva la concessione di medaglia d’oro alla memoria,proposta confermata dal secondo parere gerarchico; il Comando Superiore delle forze dislocate in Grecia declassò invece la proposta trasmettendola al Ministero come proposta di medaglia d’argento e come tale nel gennaio 1943 fu confermata dalla Commissione per le ricompense militari con la seguente motivazione:

“Sott’ufficiale del genio,partecipava con i bersaglieri a vari combattimenti distinguendosi per ardimento e sprezzo del pericolo.
In fase di ripiegamento,mentre si prodigava per mettere in salvo importanti materiali di un magazzino avanzato,veniva assalito da forze superiori. Benchè ferito gravemente,continuava l’impari lotta con bombe a mano,riuscendo a porre in fuga l’avversario.
Spirava poco dopo all’ospedale “Klisura” (Fronte greco 9 gennaio 1941).

Occorre tener presente che zio Piero aveva un’accentuata miopia e durante le operazioni restò privo di lenti ma non accusò mai l’evidente menomazione che questo fatto gli procurava,nel timore di essere rinviato nelle retrovie,almento temporaneamente, per provvedersi di nuovi occhiali.
Cosa mai occorrese per meritare una medaglia d’oro resta nelle teste vuote dei componenti quell’ “alto” comando.
Lungo e penoso fu il tentativo dei familiari per far sì che la medaglia d’argento fosse riportata all’originaria proposta di medaglia d’oro fatta dal Corpo proponente,ma fu tutto vano.
L’unica eredità lasciatami da nonno Caio e zio Piero fu la forte miopia che dall’età di due anni mi è fedele,ma poco cara,compagna ma questa è un’altra storia.

Il 20 dicembre 1922 nascono due gemelli: William e Walter. Nato nell’anno della marcia su Roma è già un miracolo che Walter non fosse stato chiamato Benito o Italo, ma certo fu educato nel culto della figura del Cavalier Mussolini.
Considerato che Fernanda nasceva cinque anni prima, allo scoppiar della rivoluzione bolscevica, incuriosisce riflettere su come una coppia nata sotto così diversi auspici avrebbe mai potuto andare d’accordo.
Piuttosto tirchietto,secchione e facilmente impressionabile Walter ebbe però rispetto ai suoi fratelli la volitività e l’intelligenza che lo avrebbe portato qualche anno più tardi alla laurea in Giurisprudenza.
Visse i primi anni a Benevento e solo nel 1929 la famiglia si trasferì a Roma nella signorile casa di via Pompeo Magno 2.
I gemelli Tiddi,l’uno portato per le materie umanistiche,l’altro per quelle scentifiche, si somigliavano come due gocce d’acqua .
Raccontava papà che un giorno riuscirono persino a ingannare i professori scambiandosi le parti per gli esami di latino e matematica. Non so se sia veramente accaduto ma mi piace crederlo.
Un bel giorno,almeno per me che altrimenti non sarei mai venuto al mondo,Walter incontrò una ragazza graziosa,se ne innamorò e cominciò a farle una serrata corte.
Fernanda era andata via dal paesino d’Abruzzo dove era nata e cresciuta,per cercar miglior fortuna a Roma.
Orfana tra orfani dopo aver lavorato presso un istituto di bambini appena più piccoli di lei,aveva trovato lavoro presso un istituto religioso il San Michele. Lì mentre le suore si occupavano dei bambini in età scolare,alcuni giovanotti facevano gli istitutori ai più grandicelli,uno di questi era papà.
Chi si occupava di servire a tavola questi precettori era proprio mamma ; a quel che mi raccontò papà fu un vero colpo di fulmine.
Il baldo genitore in fatto di donne all’epoca era un vero disastro e tramandò questa eredità al figlio minore.
Non sapendo come comportarsi per rompere il ghiaccio e attaccare bottone riuscì soltanto a scrivere un bigliettino d’amore e a nasconderlo nel cestino del pane.
Quando Fernanda sparecchiò la tavola trovò la missiva e lesse le parole d’amore che quel giovane di buona famiglia le aveva dedicato. Arrossì ma non volle farsi illusioni,era diffidente verso quel signorino troppo al di sopra della sua condizione sociale. Nei giorni seguenti evitò persino d’incrociare lo sguardo con Walter.
Le avanches del Tiddo cominciarono a farsi più insistenti e la ragazza cominciò a cedere pian piano al fascino di quello che sarebbe stato il padre di cotanto latin lover. Non aveva scampo, lo sapeva, ne parlò con Suor Teresa che le consigliò di provare.
Era perduta!
Mamma mentì spudoratamente alla madre superiora dell’istituto e ,con la scusa di andare a trovare la sorella Maria, che allora abitava a Tivoli, andò all’appuntamento che lo sciupafemmine del quartiere Prati le aveva dato in un parco nelle vicinanze del San Michele.
Il povero papà beccò una sonora buca, ma testardo come un mulo,continuò a frequentarla per diverso tempo, finchè durante una lunga passeggiata ,all’ombra del Colosseo, la pulzella capitolò.
Un forte grido, “Hurrà!” ,venne giù dal cielo: eravano noi,futura prole, che scalpitavamo nell’impazienza di venire al mondo.
Dopo quel fatidico e insperato “sì” Walter tornò a Milano dove aveva trovato un posto di lavoro presso le assicurazioni Generali,mamma,operata d’urgenza d’appendicite ,andò a trascorrere la convalescenza da zia Maria e zio Gino a Tivoli.
Papà smanioso e inquieto voleva andar via di casa, volle andare a conoscere i parenti più cari di Fernanda ,questi ricambiarono quella curiosa insistenza con uno di quei pranzi tipicamente abbruzzesi abbondanti e genuini innaffiati da buon vino e cortesia.
Quel tipetto mingherlino tutto nervi e carattere piacque moltissimo ai due che diedero la loro benedizione a fernandella .

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